Israele e la “diplomazia” degli 007: il ruolo del Mossad in Medio Oriente
CSI BULLETTIN

Lorenzo Giordano
Sin dalla sua nascita, consacrata il 14 maggio del 1948, fu chiaro che ad uno stato che contava, in base al primo censimento, poco meno di un milione di abitanti e si estendeva per circa 22.000 km2, occorresse di più di un esercito regolare ben equipaggiato per far fronte ad un vicinato mediorientale turbolento, su cui incombeva l’irrisolta questione palestinese. La contingente necessità di porre al centro delle strategie di Israele la dimensione securitaria richiedeva il supporto di un’agenzia d’intelligence che fosse in grado di individuare e neutralizzare le minacce provenienti dal mondo arabo-musulmano.
Fondato nel dicembre 1949, il Mossad, o “Istituto per l’intelligence e servizi speciali”, è la struttura civile d’intelligence direttamente coinvolta nelle operazioni all’estero di prevenzione e repressione di quelle attività che possano intaccare la sicurezza dello Stato e della società israeliana. La sua capacità di infiltrarsi nel cuore dei territori nemici e la perizia, unita alla brutalità, con cui ha portato a termine missioni critiche hanno reso il Mossad una componente rilevante nel quadro delle tattiche di politica estera di Israele e hanno fornito a Tel Aviv una sorta di legittimazione nell’ambito della “diplomazia della coercizione”.
Oggi, il raggio d’azione ricoperto dal Mossad è figlio della postura assunta da Israele nel quadrante regionale e si snoda lungo la direttrice della lotta all’estremismo islamista, rappresentato da Hamas – organizzazione radicale palestinese che governa de facto la Striscia di Gaza – e dall’ala paramilitare di Hezbollah – organizzazione sciita libanese. L’altro filone gravita attorno all’escalation delle tensioni con l’Iran, soprattutto all’indomani dell’accordo definitivo sul nucleare iraniano, raggiunto a Vienna nel luglio 2015, che riconoscerebbe a Teheran il suo diritto di arricchimento dell’uranio entro i limiti stabiliti dall’intesa (3,67% per i successivi 15 anni). Inoltre, l’Iran sciita di Khamenei e Rouhani supporterebbe, nel contesto dell’“asse della resistenza” in chiave anti-israeliana, le forze di Hezbollah, non soltanto nell’area libanese meridionale confinante con il nord di Israele, ma anche in Siria, in cui Hezbollah è attivo sin dallo scoppio della guerra civile, a sostegno del regime di Bashar al Assad.
Rientrano in quest’ottica gli omicidi mirati – o targeted killings –, fra il 27 e il 30 novembre scorso, dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh e del generale Muslim Shahdan, che hanno esacerbato ulteriormente le relazioni fra Teheran e Tel Aviv. Fakhrizadeh, padre del programma nucleare iraniano, sarebbe stato ucciso alla periferia di Teheran da una mitragliatrice montata su un furgone e controllata da remoto a circa 150 metri di distanza; mentre Shahdan, comandante del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica – o pasdaran, “guardiani”, dal persiano –, sarebbe stato colpito da un drone mentre attraversava il confine tra Iraq e Siria nei pressi della cittadina di Qaim. In particolare, quest’ultimo deteneva il controllo sugli approvvigionamenti di missili e armamenti leggeri dai depositi in Iraq alle basi operative dei pasdaran e di Hezbollah sulle alture del Golan – zona parzialmente occupata da Israele sin dalla Guerra dei Sei Giorni (1967) ma rivendicata dalla Siria – e nelle basi a sud di Damasco. In entrambe le circostanze, secondo Teheran, il mandante sarebbe Israele. L’esecutore, invece, i servizi segreti del Mossad.
In questo caso, le considerazioni etiche e giuridiche che vedrebbero i targeted killings come esecuzioni extragiudiziali portate avanti, per di più, al di fuori di un conflitto armato internazionale rivestono un ruolo marginale se rapportati ai vantaggi strategici e tattici per Israele. Le operazioni condotte dal Mossad, con l’ausilio fondamentale dell’intelligenza artificiale, oltre al violento impatto simbolico legato all’eliminazione dei vertici dei corpi militari e dei leader dell’area scientifica, sono funzionali proprio all’oggettivo indebolimento delle strutture di comando iraniane, scosse, in considerazione degli attacchi, da un profondo vuoto di potere e costrette ad impiantare reti di sicurezza che impongono costi economici elevati. Inoltre il ricorso agli omicidi mirati delinea una prassi in grado di minimizzare il coinvolgimento del governo e le proprie perdite militari.
Tale prassi, distante rispetto all’uso convenzionale della forza, consente a Israele di ingaggiare dispute regionali a bassa intensità e non essere trascinato in un conflitto armato tradizionale, forte della remota probabilità che l’Iran si muova nella direzione di una guerra su larga scala contro Tel Aviv, su cui si distende l’ombra di Washington che, nonostante abbia in parte delegato allo Stato ebraico i propri interessi strategici nel teatro mediorientale, mantiene viva una prolifica cooperazione militare e nel campo dell’intelligence, come dimostrato in occasione dell’eliminazione del capo dei pasdaran Qassem Soleimani (3 gennaio scorso), portata a compimento mediante un drone MQ-9 “Reaper” dagli Stati Uniti, a cui il Mossad avrebbe fornito informazioni circa gli spostamenti del generale iraniano.
Tali operazioni, imperniate sulla personalizzazione del nemico – assieme alle esplosioni dello scorso luglio nel sito nucleare di Natanz, unico impianto destinato ad attività di arricchimento dell’uranio – sarebbero in linea con il disegno di Israele non tanto di scatenare un conflitto nel breve periodo con Teheran, quanto piuttosto di portarlo al tavolo dei negoziati e ridiscutere le sue capacità nucleari: un’opzione di cui l’Iran, difficilmente, sarà disposto a privarsi. Un Iran tormentato da un senso di “solitudine strategica” che, nell’ultimo decennio, lo ha accompagnato in Medio Oriente, alla luce dell’instabilità dei suoi alleati (Siria e Iraq), della convergenza Iran-Arabia Saudita e della presenza americana in Afghanistan.
Sul fronte della lotta al terrorismo, Israele mira ad evitare scenari futuri simili a quelli di inizio millennio, contrassegnati dalla seconda Intifada (2000) – la rivolta delle popolazioni arabe dei territori palestinesi occupati da Israele – e dalla disastrosa guerra contro Hezbollah (2006), a seguito della cattura di due soldati israeliani. Nonostante l’escalation militare con Hamas si sia relativamente attenuata, difficilmente il Mossad, che storicamente si è sempre elevato a protettore delle popolazioni ebraiche, allenterà la sua morsa sulla striscia di Gaza, rimarcando la sovranità israeliana. Allo stesso tempo, gli omicidi mirati dei vertici di Hezbollah seminano disorganizzazione e mancanza di coordinamento all’interno di un’organizzazione che fa della gerarchia uno dei punti di forza. In questo modo, l’impiego dei servizi segreti del Mossad permette di pareggiare la natura asimmetrica degli scontri tra Israele e i movimenti terroristici, i quali non ottengono una risposta indiscriminata – che porterebbe ad una radicalizzazione del conflitto – da parte dello Stato ebraico, bensì attacchi selettivi, catalizzatori di legittimazione per una diplomazia coercitiva che conferisce una “licenza di uccidere” in piena regola.