Osservatorio sull'Unione europea
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La transizione ecologica del Mezzogiorno. L’energia ad idrogeno ed i modelli comparativi per una svolta sostenibile dell’economia locale
a cura di Valentina Berneri, Simone Biggio, Elisabetta Crevatin, Luca Mazzacane
La transazione ecologica del Mezzogiorno (pdf)
Gli ostacoli all’autonomia strategica UE: tra retorica e prassi
16/10/2021
Nel suo secondo discorso sullo Stato dell’Unione, tenuto alla presenza del Parlamento Europeo lo scorso 15 settembre, Ursula von der Leyen ha evidenziato alcuni fattori rilevanti per il presente ed il prossimo futuro dell’UE in ambito strategico. Dal diventare “leader globali” nel regno del cyber alla necessità di provvedere alla stabilità delle regioni limitrofe, passando per il rapido e costante evolversi delle minacce strategiche, i temi presentati dalla Presidentessa della Commissione Europea non rappresentano una novità rilevante nel dibattito sulle responsabilità e priorità dell’Unione in ambito militare e di difesa, al di là di qualche dettaglio circostanziale. Ciò che è stato esposto rappresenta l’ennesimo appello al necessario sviluppo di un’autonomia strategica europea, con un posto speciale riservato al desiderio di realizzare un’effettiva Unione Europea della Difesa.[1]
Il richiamo urgente alla tematica della difesa e dell’autonomia strategica nel contesto del discorso sullo Stato dell’Unione deriva naturalmente dai più recenti risvolti all’interno dello scacchiere internazionale, che hanno provocato (o stanno per provocare) una seria destabilizzazione dell’infrastruttura securitaria globale. La stessa von der Leyen ha parlato eloquentemente dell’imminente inizio di un’Era di iper-competitività, rivalità regionali, intensificazione delle minacce ibride e avversione ai più centrali valori europei. Il problema sorge tuttavia nel momento in cui la Presidentessa della Commissione Europea è stata tenuta ad esplicitare le cause dell’attuale inadeguatezza dell’UE, in ambito militare e di difesa, a fronte di un simile contesto internazionale. Ursula von der Leyen infatti si è limitata ad alludere genericamente alla coesistenza di lacune nelle capacità operative e di mancanza della volontà politica necessaria all’avvio di una seria evoluzione. [2] È tuttavia necessario analizzare più a fondo le ragioni dell’inadeguatezza delle attuali strutture europee nel perseguimento di un’autonomia strategica e, ancor più importante, la mancanza di prospettive di un serio cambiamento in tal senso nel prossimo futuro.
Il percorso dell’Unione Europea verso una struttura difensiva e militare comunitaria è stato ostruito fin dalla nascita dell’Unione stessa. Nonostante dalla metà degli anni ’90 il dibattito si sia riacceso, i progressi fatti hanno sempre aggirato l’enorme ostacolo della sovranità politica dei singoli Stati Membri, costituita in modo intrinseco anche dal controllo delle proprie forze armate. È per questo motivo che, sebbene le parole della Presidentessa fossero intrise di un tono speranzoso, sottolineare la necessità di maggiore “volontà politica” non porterà a nessun miglioramento in tal senso. L’intera struttura della Politica Estera e di Sicurezza Comune è basata sul metodo intergovernativo e sul voto all’unanimità, i quali lasciano ad ogni stato membro il controllo decisionale sulla propria politica estera e, in ultima istanza, su come utilizzare le proprie risorse militari. [3] È certamente vero che dei compromessi negli ultimi venticinque anni sono stati messi in atto. Tuttavia, il compromesso tra la volontà di condurre operazioni comunitarie e la conservazione della sovranità militare di ciascuno stato ha portato all’edificazione di un impianto strutturalmente fragile, costantemente minacciato dal potenziale veto di ciascuno stato membro. Dinamiche istituzionali di questo tipo sembrano funzionare in modo pressoché impeccabile finché i governi trovano posizioni comuni, ma sono condannate ad un cortocircuito quasi immediato nel momento in cui emerge una divergenza di prospettive. Questa dinamica non può che rispecchiare l’approccio “funzionale” con il quale gli Stati Membri dell’UE tutt’oggi percepiscono l’Unione. La volontà politica a cui la Presidentessa von der Leyen fa appello esiste finché l’interesse dell’UE non diverge da quello nazionale, ed è poco plausibile che questo dato cambi nei prossimi anni. La gestione della crisi migratoria del 2015 costituisce un esemplare caso studio in tal senso [4], e le dichiarazioni del Cancelliere austriaco Sebastian Kurz in merito all’intenzione di respingere potenziali flussi migratori dall’Afghanistan non promettono alcun serio miglioramento in proposito. [5]
Di conseguenza, diversamente da quanto affermato dalla Presidentessa von der Leyen, le lacune in ambito operativo che hanno caratterizzato la sfera militare dell’UE fino a questo momento non rappresentano un fattore distinto dalla mancanza di volontà politica. Al contrario, il nesso tra i due elementi è tale da renderne difficile la distinzione. Coordinare l’azione militare e di difesa al livello europeo significa, semplificando grandemente: condividere metodicamente e costantemente ogni informazione di intelligence reperita; realizzare catene di comando militari che consentano un coordinamento ed una guida operativa di tipo top-down, in grado di supervisionare efficacemente le operazioni in atto e gestire efficientemente le risorse a disposizione; avviare strutture di finanziamento, raggruppamento di forze e condivisione delle responsabilità che rispondano ad un criterio sovranazionale, piuttosto che basato sullo spirito d’iniziativa di ciascuno stato. [6] Il fatto che ad oggi si parli di gravi lacune operative in ambito militare e di difesa nonostante un’Agenzia Europea della Difesa esista già dal 2004, la dice lunga sulle difficoltà in tal senso. Nessuna delle sopracitate misure, di fatto, è realizzabile in maniera consona senza l’abolizione del voto all’unanimità nel contesto della Politica Estera e di Sicurezza Comune, e dunque senza superare il vincolo della volontà politica. Le più recenti misure prese al fine di rafforzare le capacità strategiche europee ne sono la prova. Lo Strumento Europeo per la Pace, annunciato alla fine di marzo, rimane indissolubilmente legato al voto unanime dei rappresentanti degli Stati Membri, nonché composto da contributi diretti di questi ultimi.[7] Analogamente, la strada tracciata per l’istituzione dello Strategic Compass nei primi mesi del 2022 non sembra promettere cambi di rotta rilevanti. Ciò che si sa della cosiddetta bussola strategica fino a questo momento è che rappresenta l’ennesima riaffermazione delle minacce e priorità che preoccuperanno maggiormente l’UE nel prossimo futuro. [8] Considerato da molti all’interno delle istituzioni europee come la chiave di volta per un accesso ad un livello superiore nella costruzione di capacità militari e di difesa dell’UE, il piano sullo Strategic Compass non ha finora rivelato alcuna caratteristica di spicco per riuscire nell’intento dichiarato. [9] [10] Un caso degno di nota è quello Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) presente all’interno del Trattato sull’Unione Europea, la quale ha incentivato ed incrementato la cooperazione tra stati membri nell’ambito della difesa. Tuttavia, sebbene dall’avvio della PESCO diversi Stati Membri abbiano dimostrato la volontà di investire, sviluppare e mettere in atto capacità militari all’interno di un quadro comunitario, le decisioni adottate dal Consiglio Europeo nell’ambito di una tale cooperazione vengono sempre implementate in virtù di un voto unanime degli stati membri partecipanti. [11]
L’origine dei problemi dell’UE rispetto al perseguimento di un’autonomia strategica in ambito militare non risiede nella necessità di nuovi strumenti che operino all’interno delle attuali strutture. Sulla base di quanto constatato, è plausibile che l’incapacità dell’Unione di far fronte alle proprie lacune derivi dagli stessi trattati sulla quale essa si basa. Finché il Trattato sull’Unione Europea non permetterà che le spese derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa possano essere a carico dell’Unione, è sostanzialmente inverosimile che l’UE riesca a garantire una maggiore qualità operativa, specialmente nel contesto dei finanziamenti. [12] Allo stesso modo, fintanto che le Dichiarazioni 13 e 14 allegate al Trattato di Lisbona indicheranno chiaramente che “le disposizioni riguardanti la politica comune in materia di sicurezza e di difesa non pregiudicano il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa degli Stati membri” ed inoltre che “non conferiscono alla Commissione nuovi poteri di iniziativa per le decisioni né accrescono il ruolo del Parlamento europeo”, è improbabile che l’UE acquisisca la sufficiente rilevanza politica ed operativa per raggiungere un’autonomia strategica degna di questo nome. [13]
Commissione Europea. 2021 State of the Union Address by President von der Leyen. Strasburgo, 15 settembre 2021. Consultato il 20/09/2021. https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/ov/SPEECH_21_4701
ibid.
Keukeleire, Delreux. The Foreign Policy of the European Union, 2ª edizione, Palgrave Macmillan, 2014.
Ceccorulli, Michela. Back to Schengen: the collective securitisation of the EU free-border area. West European Politics, 2019, 42.2: 302-322.
Euronews. Austrian chancellor says he’s against taking in more Afghan refugees. Visitato il 21/09/2021. https://www.euronews.com/2021/08/22/austria-will-not-accept-more-afghan-refugees-chancellor-kurz-says
Keukeleire, Delreux. The Foreign Policy of the European Union, 2014.
Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea. Decisione (PESC) 2021/509 del Consiglio del 22 marzo 2021che istituisce uno strumento europeo per la pace, e abroga la decisione (PESC) 2015/528, marzo 2021. https://bit.ly/2QztfOn
Sabatino et al. The Quest for European Strategic Autonomy – A Collective Reflection, Istituto Affari Internazionali, 2020. https://www.iai.it/en/pubblicazioni/quest-european-strategic-autonomy-collective-reflection
Slovenian Presidency of the Council of the European Union 2021. Experience from Afghanistan shows that the EU needs a credible response force. Comunicato Stampa del 02/09/2021, consultato il 22/09/2021. https://slovenian-presidency.consilium.europa.eu/en/news/experience-from-afghanistan-shows-that-the-eu-needs-a-credible-response-force/
Servizio Europeo per l’Azione Esterna, Towards a Strategic Compass. Factsheet, maggio 2021. https://eeas.europa.eu/sites/default/files/towards_a_strategic_compass.pdf
Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea. Trattato sull’Unione Europea (versione consolidata), 26 ottobre 2012, artt. 42,46. https://bit.ly/3sSYXmU
Ibidem, art. 41,2. 26 ottobre 2012 https://bit.ly/3sSYXmU
Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea. Dichiarazioni allegate all’Atto Finale della Conferenza Intergovernativa che ha adottato il Trattato di Lisbona. 13 dicembre 2007. urly.it/3f-20
La politica di allargamento dell’UE come strumento di democratizzazione
03/09/21
A cura di Erika Frontini, Osservatorio sull’Unione europea
La politica di allargamento dell’UE è stata a lungo considerata un metodo di successo per la promozione della democrazia da parte di un attore esterno (1). In realtà, l’utilizzo del processo di adesione per tale scopo ha riguardato solo gli allargamenti più recenti. Inoltre, gli strumenti pensati per promuovere democrazia e stato di diritto nei Paesi candidati sono stati rivisti negli anni, adattandoli al contesto locale ed imparando dalle esperienze – non sempre positive – del passato.
Quando, nel 1973, Regno Unito, Irlanda e Danimarca si unirono ai Sei fondatori, non esisteva una politica di allargamento ben strutturata, ma solo una procedura, descritta all’art. 237 del Trattato di Roma (ora art. 49 TUE). L’unica condizione per poter essere ritenuto idoneo a diventare membro della Comunità era essere uno “Stato europeo” (2). Per giunta, tali Paesi erano già democrazie, perciò la questione non si pose.
Dunque, la prima occasione in cui l’adesione giocò un ruolo nella democratizzazione dei Paesi candidati fu l’allargamento a Grecia, Spagna e Portogallo. Tutti questi Paesi, che completarono l’accesso nel corso degli anni Ottanta, furono ammessi solo dopo aver superato i governi autoritari che li avevano guidati fino a poco prima. Il fatto che precedenti tentativi di essere coinvolti nel processo di integrazione fossero stati respinti dalle istituzioni europee corrobora la tesi che l’appartenenza alle Comunità sia, sin dalle origini, riservata alle sole democrazie. In particolare, nel 1961 il Parlamento europeo negò alla Spagna un accordo di associazione adottando il Rapporto Birkelbach, nel quale si affermava che la garanzia di una forma di Stato democratica è condizione per l’adesione (3). Nondimeno, in quella circostanza, le istituzioni non colsero la possibilità di porsi come esportatrici attive di istituzioni e pratiche democratiche: pur esigendo il rispetto di tali principi dagli aspiranti Stati membri, non fornirono nessun tipo di orientamento sulle riforme da intraprendere (4).
L’atteggiamento delle istituzioni UE è decisamente cambiato con la fine della guerra fredda, quando la fila di aspiranti nuovi membri si è notevolmente allungata. Se, da un lato, l’accesso di Austria, Finlandia e Svezia non ha richiesto nessuna azione nel campo della promozione dei valori fondamentali, l’aspirazione di dieci Paesi dell’Europa centro-orientale ad essere pienamente integrati rappresentava una grande sfida per la neonata Unione. È proprio in questo contesto che le istituzioni hanno iniziato ad adottare una postura più attiva rispetto alla democratizzazione degli Stati candidati.
In un primo momento, l’UE si è limitata a ribadire che il rispetto dei valori democratici costituisce una condizione essenziale non solo per l’adesione, ma anche per essere ammessi al processo negoziale (5). Il Consiglio europeo di Copenaghen del 1993 ha elencato i criteri di adesione, che includono “la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela” (6). In seguito, le istituzioni hanno progressivamente delineato una strategia per guidare i Paesi candidati nella realizzazione delle riforme necessarie durante il periodo di pre-adesione, trasformando l’allargamento da semplice procedura a vera e propria policy (7).
Inizialmente, si è fatto uso degli accordi di associazione – già firmati da alcuni degli aspiranti Stati membri – e dei relativi sistemi istituzionali, i quali fornivano un canale di dialogo, ma anche un’opportunità di monitoraggio dei progressi nell’attuazione delle riforme (8). Allo stesso modo, i programmi di finanziamento di cui tali Paesi già beneficiavano sono stati reindirizzati al soddisfacimento dei criteri di adesione.
Più tardi, con la pubblicazione dell’Agenda 2000 e il Consiglio europeo di Lussemburgo nel 1997, la strategia di pre-adesione è stata ulteriormente rafforzata. Da quel momento, per ogni candidato, vengono individuate specifiche priorità in un documento di partenariato. L’assistenza finanziaria è condizionata al raggiungimento degli obiettivi del documento di partenariato e i progressi di ciascun Paese sono attentamente monitorati dalla Commissione, che produce ogni anno appositi report. Parallelamente, a seconda del loro livello di preparazione, i candidati portano avanti i negoziati di adesione, organizzati per capitoli riguardanti i diversi aspetti dell’acquis.
All’affacciarsi del nuovo millennio, c’era quindi grande entusiasmo rispetto alla politica di allargamento, tanto da spingere l’UE ad impegnarsi in maniera ambiziosa nei confronti dei Balcani Occidentali, i prossimi in lista. Tuttavia, tale slancio si è presto scontrato con la delicata situazione di questi Paesi e la crescente “stanchezza da allargamento” negli Stati membri. Per di più, preoccupanti involuzioni in alcuni Paesi di recente adesione hanno alimentato dubbi sull’effettiva capacità dell’UE di assicurare una democratizzazione stabile e duratura.
In risposta a tutto ciò, le istituzioni hanno rafforzato il principio di condizionalità, soprattutto rispetto ai valori fondamentali. Ora, i capitoli riguardanti questi ultimi sono trattati per primi e chiusi solo alla fine dell’intero processo, in modo da prolungare l’esposizione alla condizionalità prima dell’adesione (9). L’uso di benchmark da raggiungere per poter aprire o chiudere i vari cluster negoziali va nella stessa direzione. La più recente riforma della metodologia di allargamento sottolinea poi la necessità di istituire un chiaro meccanismo di incentivi e sanzioni per assicurare il rispetto dei criteri. Quindi, si prevede la possibilità di premiare i candidati virtuosi con più fondi o un’integrazione accelerata in singole aree. Invece, in caso di prolungato stallo o regressione, i negoziati possono essere sospesi (10).
Come emerge da quanto detto sopra, la strategia dell’UE per promuovere la democrazia nei Paesi candidati è incentrata sul meccanismo di condizionalità: l’adozione di determinate norme costituisce la condizione per accedere a certi benefici (11). Il fatto che l’adesione rappresenti il “premio” più bramato dagli aspiranti Paesi membri rende tale strumento particolarmente proficuo nell’ambito della politica di allargamento. Nondimeno, ci sono fattori che incidono sull’efficacia della condizionalità, quali chiarezza delle condizioni e rapporto costi/benefici per ciascun Paese. Ma, più di ogni altra cosa, la promessa dell’Unione di assorbire quegli Stati che rispettano tutti i criteri deve essere credibile: solo così i Paesi candidati saranno veramente motivati ad implementare le riforme richieste. Al contrario, negli ultimi anni, la politica di allargamento è stata colpita da un deficit di credibilità. Questo si deve a un’opinione pubblica tendenzialmente sfavorevole, a disaccordi tra gli Stati membri, nonché dispute bilaterali tra questi ed alcuni Paesi candidati (12) – basti pensare alla Macedonia del Nord, che si è vista sbarrare la strada verso l’adesione per ben tre volte dai veti di diversi Paesi membri.
In aggiunta, quando si tratta di esportare valori e norme di comportamento, come nel caso della democrazia, l’approccio rapido e tecnocratico insito nel principio di condizionalità potrebbe non bastare, o peggio essere controproducente (13). Affinché la democratizzazione sia sostanziale e duratura, è necessario che le regole democratiche siano interiorizzate da classi dirigenti e popolazioni. Pertanto, all’interno della strategia per l’allargamento, andrebbe dato maggior rilievo a strumenti di socializzazione, garantendo al contempo una maggiore partecipazione dei cittadini.
1. Vachudova, M. A. EU Leverage and National Interests in the Balkans: The Puzzles of Enlargement Ten Years on. Journal of Common Market Studies, vol. 52, n. 1, January 2014, p. 122-138.
2. Comunità Europee. Trattato che istituisce la Comunità economica europea. Roma, 25 marzo 1957.
3. European Parliament. Report by Billy Birkelbach on the Political and Institutional Aspects of the Accession to or Association with the Community. 19 December 1961.
4. Barracani, E., Calimli, M. Evaluating Effectiveness in EU Democracy Promotion: The Case of Turkey. Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, n. 3, 2016, p. 427-456.
5. Smith, K. E. The Evolution and Application of EU Membership Conditionality. In Cremona, M. (Ed.) The Enlargement of the European Union. Oxford University Press, 2003, p. 105-139.
6. EUR-Lex. [Online] Glossario delle sintesi. Criteri di adesione. Consultabile su: https://bit.ly/3g9lkAb
7. Emmert, F., Petrovi, S. The Past, Present, and Future of EU Enlargement. Fordham International Law Journal, vol. 37, issue 5, 2014.
8. Maresceau, M. Pre-Accession. In Cremona, M. (Ed.) The Enlargement of the European Union. Oxford University Press, 2003, p. 9-42.
9. Vachudova. EU Leverage and National Interests in the Balkans. 2014.
10. Commissione europea. [Online] Comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Rafforzare il processo di adesione – Una prospettiva europea credibile per i Balcani occidentali. Bruxelles, 5 febbraio 2020. Consultabile su: https://bit.ly/2RzitbG
11. Schimmelfennig, F., Sedelmeier, U. [Online] The Europeanization of Eastern Europe: the External Incentives Model Revisited. In Matlak, M., Schimmelfennig, F., Woźniakowski, T. P. (Eds.) Europeanization Revisited: Central and Eastern Europe in the European Union. European University Institute, 2018, p. 19-37. Consultabile su: https://cadmus.eui.eu/handle/1814/59573
12. Ibid.
13. Malová, D., Dolný, B. The Eastern Enlargement of the European Union: Challenges to Democracy?. Human Affairs, n. 18, 2008, p. 67–80.
L’imposizione fiscale nell’era digitale: l’ultimatum dell’UE per la tutela del mercato interno
27/06/2021
a cura di Alessandra Mozzi, Osservatorio sull’Unione europea
Tassare l’economia digitale rientra tra gli obiettivi più urgenti in vista dell’attivazione del Programma Digital Europe previsto per il 2021-2027. Secondo Ecofin[1], l’armonizzazione del sistema fiscale, di pari passo con la creazione di un mercato unico digitale europeo, permetterà agli Stati membri di uscire più rapidamente dalla crisi pandemica e di recuperare in tempi brevi il debito creato dal Recovery Fund.
Ad oggi, complice anche la pandemia da Covid-19, le imprese appaiono sempre più dematerializzate, mentre il commercio (sia interno che internazionale) punta oramai sui beni c.d. “intangibles”, tra cui rientrano brevetti, know-how e soprattutto big-data. Le piattaforme social, ad esempio, riescono ad accaparrarsi ingenti guadagni tramite l’acquisizione a titolo gratuito dei dati personali degli utenti (compresi quelli sensibili) che poi sono rivenduti sul mercato digitale per scopi pubblicitari, sondaggistici e politici. Tuttavia, però gran parte di questi ricavi fatturati completamente sul web non vengono adeguatamente tassati, poiché le imprese cui sarebbero imputabili riescono facilmente a mobilizzarli da un Paese all’altro, senza essere fisicamente presenti nei territori di produzione.
Al riguardo, le multinazionali dell’industria digitale starebbero pianificando la loro presenza fiscale nel mercato globale in maniera “aggressiva”[2], sottraendo cioè buona parte dei loro utili dalla tassazione dei luoghi in cui gli stessi vengono generati. L’effetto deriverebbe da una serie di strategie organizzative che sono state sinteticamente suddivise dall’OCSE nelle definizioni di “base erosion” e in quella di “profit shifting” (BEPS) nell’Action Plan diffuso nel 2013[3], cui fa seguito il piano “Inclusive Framework on BEPS”[4], stilato in accordo con il G20 nel 2019, e rinnovato per il 2020, in cui sono racchiuse alcune delle linee guida volte a costituire un sistema globalizzato di tassazione societaria per il futuro.
Il fenomeno della pianificazione aggressiva delle tasse colpisce anche il mercato unico europeo, dove alcuni Stati fungono da veri e propri paradisi fiscali[5] per le aziende del web, che trasferiscano qui i loro utili, prodotti nel resto del territorio comunitario soggetto a tassazione ordinaria, per poi concordare con le amministrazioni conniventi dei trattamenti fiscali agevolati. La questione involge il divieto di dumping vigente nel mercato europeo ed è stata a più riprese affrontata dalla Commissione europea, a partire dalla Comunicazione “Un sistema fiscale equo ed efficace nell’Unione Europea per il mercato unico digitale” (COM (2017)547)[6]. Qui per la prima volta si sono messe in luce le due questioni principali dinanzi alle quali l’equilibrio fiscale europeo è stato posto, ovvero chi e cosa tassare. Si è di conseguenza accolta la terza “sfida”, diretta alla realizzazione di una web-tax su base imponibile unica per tutti i regimi fiscali nazionali (come tassare).
A tale intervento hanno fatto seguito nel 2018 due proposte di direttiva: la prima[7]disegna il possibile modello di imposta societaria da applicare a quelle imprese non dotate di una presenza fisica, stabilendo per queste un diverso nesso imponibile individuato nella “presenza digitale significativa”. Con la seconda[8] invece, si tende ad introdurre una misura temporanea (ISD, o imposta sui servizi digitali), in attesa che i negoziati in sede globale portino al raggiungimento di un accordo definitivo sul primo punto.
Tuttavia, una certa lentezza dei lavori OCSE/G20, insieme alla crescente preoccupazione per la necessità di nuove risorse nell’area economica europea, hanno spinto l’Unione ad accelerare i lavori per l’adozione della misura temporanea interna, che comunque rimarrà chiaramente distinta rispetto all’imposta societaria. Da poco infatti si è conclusa una consultazione popolare[9] sulla proposta di “prelievo sul digitale”, che dovrebbe essere applicato a tutti quei servizi (pubblicitari, di veicolazione e di trasmissione dati) svolti da qualsiasi impresa mediante l’uso di interfacce multimediali. Questo decisivo passo in avanti dovrebbe avvenire al limite entro il 2023[10], e sarà anticipato dalla consegna della proposta definitiva entro questo giugno, a prescindere da quale sarà l’andamento delle negoziazioni globali.
La digitalizzazione dell’economia ha imposto in sostanza di ripensare l’idea classica di “sovranità fiscale”, tipicamente appartenente agli Stati, a favore di una nuova concezione di fiscalità globale/transnazionale, nonostante per ora l’interesse dei singoli ordinamenti a mantenere un certo grado di autonomia nella materia non sembra venir meno. Per quanto le istituzioni europee si sforzino di prediligere approcci multilaterali sul tema, diversi Stati membri (Francia, Italia, Ungheria, Spagna e altri)[11] hanno già adottato proprie forme di prelievo sul digitale, ritrovandosi dinanzi alle reazioni protezionistiche di Stati terzi. È quanto accaduto tra la Francia, primo Paese UE a promulgare una propria tassa sul digitale[12], denunciando l’eccessiva lentezza delle trattative sovranazionali, e gli USA, Paese di origine delle più importanti big-tech attive in Europa. In particolare, la dura reazione della passata amministrazione Trump si è concretizzata nell’imposizione di pesanti dazi alle importazioni francesi, benché si auspica che tale linea difensiva possa essere presto abbandonata dal neo-eletto Presidente Biden. D’altra parte, non è da escludere che proprio un rientro degli USA nell’ambito delle trattative OCSE/G20, da cui si sono tatticamente ritirati lo scorso anno, porti ad una loro conclusione definitiva entro la fine del 2021.
Dal sintetico quadro delineato, si evincono ancora troppe incertezze sul futuro di questa “fiscalità 2.0” sussistenti intorno alla questione più importante: chi e a quale livello (nazionale, sovranazionale, globale) spetta il precipuo compito di tassare i colossi del web? Di qui, proverranno infatti le risposte alle ulteriori incognite: quale sarà l’effetto dell’introduzione del prelievo unico europeo sui rapporti con Paesi terzi come gli USA; ed infine, come saranno previste e affrontate le inevitabili contro-strategie che le stesse imprese soggette alle nuove misure metteranno in atto. In breve, è evidente che la questione sulla fiscalità nell’era digitale, lungi dall’avere mera valenza economica, ha assunto peso politico, direttamente proporzionale alla crescita degli interessi legati alla digitalizzazione. In questa prospettiva l’Unione, da attore globale, e da promotrice degli interessi degli Stati che rappresenta, è chiamata a garantire che il cammino verso una digital-tax globale avvenga nel pieno rispetto dei principi che ne hanno connotato l’integrazione fiscale interna: equità, efficienza, effettività.
[1]https://tinyurl.com/td592mmv
[2] P.Pistone, La Pianificazione fiscale aggressiva e le categorie concettuali del diritto tributario globale, Rivista Trimestrale di Diritto Tributario, 2/2016, https://tinyurl.com/9u65hdpc
[3] https://tinyurl.com/r79fjb2z
[4] https://www.oecd.org/tax/oecd-secretary-general-tax-report-g20-finance-ministers-october-2020.pdf
[5] https://www.camera.it/temiap/2015/02/25/OCD177-980.pdf
[6] https://tinyurl.com/2yyp8mvc
[7] COM(2018) 147 final, https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:3d33c84c-327b-11e8-b5fe-01aa75ed71a1.0014.02/DOC_1&format=PDF
[8] COM (2018) 148 final https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52018PC0148&rid=1
[9] /www.fasi.biz/it/notizie/strategie/22134-digital-tax-usa-negoziati-ocse.html#Marzo2021
[10] EUCO Statement, Dichiarazione dei membri del Consiglio europeo 25 marzo 2021, www.consilium.europa.eu/media/49014/250321-vtc-euco-statement-it.pdf
[11] S. Latini, Digital Tax senza confini, IPSOA, 08 gennaio 2021, https://www.ipsoa.it/documents/fisco/fiscalita-internazionale/quotidiano/2021/01/08/digital-tax-senza-confini
[12] https://www.ilsole24ore.com/art/web-tax-francia-chiede-imposte-milionarie-big-digitale-AD2ReS4
Scontro UE-Regno Unito sul protocollo per l’Irlanda del Nord: cause e conseguenze
04/06/2021
a cura di Alessio Corsato, Osservatorio sull’Unione europea
Sei anni dopo il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea (UE) del 23 giugno 2016, lo scorso 29 aprile il Consiglio dell’UE ha adottato la Decisione 5022/3/21 con cui si è conclusa definitivamente la separazione tra le due parti [1]. La Decisione ha seguito la ratifica da parte del Parlamento Europeo di due trattati: l’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’UE e il Regno Unito, deliberata due giorni prima con 660 voti favorevoli, 5 contrari e 32 astensioni, con la quale si è scongiurato lo scenario del no deal, e l’Accordo sulle procedure di sicurezza per lo scambio e la protezione di informazioni classificate.
L’Accordo commerciale, raggiunto in extremis il 24 dicembre 2020 dalle delegazioni guidate da Michel Barnier per l’UE e da David Frost per il Regno Unito, una volta ratificato dal Parlamento britannico e firmato da Charles Michel a nome del Consiglio e da Ursula Von der Leyen a nome della Commissione il 30 dicembre, era entrato in vigore provvisoriamente il 1 gennaio 2021. Tuttavia, vista l’imminente scadenza del periodo provvisorio, il 30 aprile 2021, gli scontri in Irlanda del Nord e, soprattutto, l’avvio di una procedura di infrazione contro il Regno Unito il 15 marzo [2], la seconda nell’arco di sei mesi, avevano fatto temere il peggio.
Procediamo con ordine. Per cominciare, l’accordo commerciale ha un’importanza fondamentale perché rappresenta il pilastro delle future relazioni tra l’UE e il Regno Unito. Tratta numerosi aspetti, alcuni molto cari alla sovranità britannica recentemente riacquistata, ma il corpus dell’opera è incentrato indubbiamente sull’istituzione di un’area di libero scambio [3]. Molto sinteticamente, con l’Accordo vengono aboliti i dazi e le quote all’importazione per quei beni la cui origine, che dovrà essere certificata, è riconducibile a un paese europeo o al Regno Unito. Tuttavia, nonostante il riconoscimento della figura dei c.d. Authorised Economic Operators, il commercio risentirà sicuramente dei rallentamenti dovuti all’installazione delle dogane ai confini.
Considerando l’elevato interscambio commerciale tra il blocco europeo e il Regno Unito – quest’ultimo è infatti il terzo partner commerciale dopo Stati Uniti e Cina per l’UE [4], mentre l’UE risulta essere il primo partner per il Regno Unito [5] – un eventuale scenario senza accordo sarebbe stato disastroso per i produttori e i consumatori poiché si sarebbero applicate le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ad esempio, certe tipologie di carne e latticini avrebbero visto applicarsi dazi del 40%, mentre il pesce in scatola del 25% e le automobili del 10% [6].
Per questo la ratifica del Parlamento Europeo del 27 aprile scorso è stata seguita con grande attenzione, soprattutto, come già anticipato, alla luce di due eventi strettamente correlati che trovano la loro origine nell’ottobre 2019, quando il Primo Ministro Boris Johnson accettò l’inserimento del Protocollo per l’Irlanda del Nord nell’Accordo di recesso dall’UE. Onde evitare la reintroduzione di un confine fisico tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, rimosso nel 1998 a seguito dell’Accordo del Venerdì Santo, che pose fine al lungo conflitto interetnico nordirlandese, il Protocollo prevede la creazione di una frontiera interna al Regno Unito, precisamente nel Mare d’Irlanda, tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno. La peculiarità del Protocollo è quella di assegnare all’Irlanda del Nord uno status speciale. Infatti, essa rimarrà parte del Mercato Unico Europeo e sarà soggetta alle regole europee in materia commerciale, ad esempio riguardo i sussidi statali [7].
Il Protocollo si è rivelato uno degli elementi più spinosi da negoziare lungo tutto il processo ed è rimasto molto controverso e contestato dai conservatori, soprattutto da parte degli “unionisti”, che ne chiedono l’abolizione [8].
Ritornando agli ultimi avvenimenti, gli scontri della prima metà di aprile tra i manifestanti e le forze dell’ordine in diverse città dell’Irlanda del Nord, inizialmente considerati come risposta alla decisione della polizia di non avviare un’indagine sulla presunta violazione delle misure governative anti-Covid contro gli oltre 2000 partecipanti al funerale del repubblicano Bobby Storey del giugno 2020, tra cui 24 politici del Sinn Féin, sarebbero direttamente riconducibili agli sviluppi della Brexit e la separazione dal Regno Unito[9].
Inoltre, la decisione dell’UE di avviare una procedura di infrazione contro il Regno Unito è stata presa in risposta a quanto dichiarato dal Governo britannico a metà marzo, e cioè l’intenzione di prorogare unilateralmente fino al 1° ottobre il periodo di grazia per l’implementazione delle dogane con l’Irlanda del Nord. Questo periodo era stato accordato inizialmente fino al 1° aprile per dare tempo agli operatori economici di prepararsi [10], e riguarda solo alcune tipologie di importazioni, quali i rifornimenti per i supermercati e le consegne dei pacchi [11], mentre per altre, come il commercio di animali vivi, piante e cibo considerato ad alto rischio – regolato dai requisiti Sanitari e fitosanitari (SPS) – sarà necessario aspettare il 2022 [12]. Per la seconda volta da ottobre, Bruxelles in una lettera ha accusato Londra di aver violato il principio di buona fede, rischiando di compromettere l’equilibrio irlandese raggiunto con l’Accordo del Venerdì Santo. Nel primo caso fu una proposta di legge conosciuta come “Internal Market Bill” a far avviare a Bruxelles un’azione legale, poiché essa avrebbe apertamente violato il diritto internazionale.
Mentre è in corso la valutazione da parte della Commissione della risposta del governo britannico alla lettera, ricevuta il 14 maggio [13], la situazione rimane molto delicata. Gli scontri nordirlandesi hanno dimostrato da una parte l’esistenza di una crescente tensione sociale, e dall’altra, ancora una volta, le crescenti difficolta nel mettere in pratica la Brexit. Ad esse si aggiungono le speculazioni sul futuro della Scozia, in cui il “remain” nel 2016 prevalse con il 62% contro il 46,6% nazionale, nonché riguardo una possibile riunificazione dell’Irlanda, sulla quale gli ultimi sondaggi registrano una maggioranza storica [14]. Le recenti elezioni per il rinnovo del Parlamento scozzese possono essere un vero turning point sulla futura permanenza della Scozia nel Regno Unito, in quanto la coalizione di maggioranza, apertamente indipendentista, composta dal Partito Nazionale Scozzese e i Verdi ha ottenuto 72 seggi su 129, e la sua leader, Nicola Sturgeon, è pronta ad avviare un secondo referendum dopo quello del 2014 [15].
Il Regno Unito rischia così di disgregarsi tra pressioni interne ed esterne, ed è importante tenere a mente come queste nuove realtà e i problemi che esse comportano sono solo le conseguenze della scelta del popolo britannico di uscire dall’UE. Quest’ultima rimane pronta ad utilizzare tutti gli strumenti in suo possesso per far rispettare l’Accordo, tra cui la possibilità di reintrodurre unilateralmente misure commerciali [16], tuttavia, secondo Michel Barnier è altresì importante che la vicenda Brexit sia un monito per l’Unione, ossia che impari la lezione nel comprendere le esigenze e i sentimenti popolari [17].
[1] Consiglio dell’Unione Europea, Decisione 5022/3/21, 28 aprile 2021. https://bit.ly/2SFdc2q
[2] Commissione Europea, Comunicato stampa. Lettera di costituzione in mora al Regno Unito, 15 marzo 2021. https://bit.ly/3h8KPUp
[3] Commissione Europea, L’accordo sugli scambi e la cooperazione tra l’UE e il Regno Unito. https://bit.ly/3xNN8SR
[4] Parlamento Europeo, Note sintetiche sull’Unione Europea, ottobre 2020. https://bit.ly/2RyENlc
[5] globalEDGE, United Kingdom: Trade Statistics. Data di consultazione 11 maggio 2021. https://bit.ly/33ql7CF
[6] Commissione Europea, EU-UK Trade and Cooperation Agreement, Dicembre 2020. https://bit.ly/3f4K0Jy
[7] Fox, B., “Uncertain” Brexit deal could see UK bound by EU subsidies rules, lawmakers warn, EURACTIV, 9 aprile 2021. https://bit.ly/3f1ctQv
[8] Ibidem.
[9] O’Carroll, L., Northern Ireland unrest: why has violence broken out?, The Guardian, 8 aprile 2021. https://bit.ly/3y0hzVY
[10] Campbell, J., Brexit: What will happen when EU-GB grace periods expire?, BBC, 10 marzo 2021. https://bbc.in/3tpUad6
[11] O’Leary, N., Brexit: EU takes action against UK over extension of grace period, The Irish Times, 15 marzo 2021. https://bit.ly/2R13RS2
[12] Partridge, J., UK forced to delay checks on imports from EU by six months, The Guardian, 11 marzo 2021. https://bit.ly/3h5Brks
[13] RTE, EU mulls ‘next steps’ as UK responds to Brexit lawsuit, 15 maggio 2021. https://bit.ly/3vta4Fj
[14] Jefferson, R., It’s Me, Jack. My United Kingdom Is Fraying, 5 maggio 2021. https://bloom.bg/3uookP4
[15] Brooks, L., Carrell, S., SNP election win: Johnson sets up summit as Sturgeon pledges second referendum, The Guardian, 8 maggio 2021 https://bit.ly/3tFIQJH
[16] Zalan, E., EU warns UK of using ‘real teeth’ in post-Brexit deal, EUobserver, 28 aprile 2021 https://bit.ly/3y3Kuby
[17] Ibidem.
La nuova Strategia europea di adattamento ai cambiamenti climatici
26/05/2021
a cura di Mario Ghioldi, Osservatorio sull’Unione europea
In linea con il Green Deal europeo e con il recente Next Generation EU, fortemente incentrato sulla transizione ecologica, lo scorso 24 febbraio la Commissione Europea ha annunciato la nuova “Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici” (The EU Strategy on Adaption to Climate Change)1. Basato sui principi della precedente Strategia adottata nel 2013, il nuovo progetto sposta l’attenzione dalla pianificazione all’implementazione delle misure di adattamento climatico.
Le conseguenze del cambiamento climatico, oltre ad avere un forte impatto sulla salute ed il benessere delle popolazioni mondiali ed europee, portano ad un deciso rallentamento della crescita economica dell’Unione Europea (UE), i cui impianti produttivi e finanziari sono già stati messi a dura prova dall’emergenza sanitaria. Secondo il documento strategico, il surriscaldamento globale potrebbe portare ad una perdita annuale del PIL europeo di 1.36%, pari a 170 miliardi di euro2. Inoltre, la Strategia ha sottolineato come il cambiamento climatico abbia portato ulteriori effetti che influenzano indirettamente la vita degli europei, tra essi, il piano strategico pone una particolare attenzione sull’aumento dei flussi migratori e sulle maggiori difficoltà degli scambi commerciali a livello globale e regionale.
In tale contesto, la Strategia evidenzia la necessità di adottare ed implementare politiche di adattamento climatico sia a livello locale che nazionale, includendo gli attori pubblici e privati dei vari paesi membri. Difatti, secondo il documento, al fine di costruire una società resiliente al clima, tutte le parti della società hanno il compito di migliorare e condividere la propria conoscenza sugli impatti del cambiamento climatico e le conseguenti soluzioni di adattamento. In questo ambito, la Strategia dovrebbe seguire quattro macro-obiettivi: l’adattamento climatico deve essere capace e intelligente (smarter), rapido (swifter), più sistematico (more systemic) e deve essere in grado d’intensificare l’azione internazionale sull’adattamento ai cambiamenti climatici3.
Al fine di conseguire un adattamento efficace, la Strategia invita i policy makers ad adottare politiche che stimolino ed incentivino ricerche sull’adeguamento climatico con l’obiettivo di raccogliere maggiori dati sui rischi, le perdite e le conseguenze legate alle mutazioni climatiche. All’interno di tale contesto, rientra anche il miglioramento della piattaforma europea Climate-ADAPT. Difatti, tale strumento digitale, nato attraverso la partnership tra la Commissione Europea e l’Agenzia europea dell’Ambiente (AEA), nel corso degli anni è diventato un importante mezzo per attori pubblici e privati nel condividere dati ed informazioni inerenti all’adattamento al cambiamento climatico.
Il secondo obiettivo riguarda la rapidità di azione da parte degli attori pubblici e privati al fine di adottare misure e soluzioni per l’adattamento climatico. Oltre a ridurre i rischi legati al cambiamento climatico (come ad esempio quelli riguardanti i disastri naturali), lo scopo di tali provvedimenti è quello di aumentare la protezione degli ecosistemi presenti nell’Unione Europea. In particolare, tra i vari elementi, la Strategia sottolinea l’importanza di proteggere e salvaguardare le acque dolci del continente europeo.
Un punto cardine della Strategia riguarda il terzo obiettivo, il quale segna una sostanziale differenza con il piano precedente in quanto evidenzia l’importanza dell’implementazione ad ogni livello di governance delle politiche e misure di adattamento climatico adottate dagli attori pubblici e privati. A riguardo, il documento strategico sottolinea come ci siano le seguenti priorità trasversali:
L’implementazione delle misure riguardanti l’adattamento climatico attraverso le politiche macro-fiscali;
La ricerca di soluzioni alternative che possano tutelare l’ambiente ed allo stesso tempo mettano al centro uno sviluppo sostenibile tenendo in considerazione le diverse peculiarità del continente europeo;
Il costante incentivo alle istituzioni ed agli attori locali per l’adozione di azioni e politiche che favoriscano l’implementazione delle menzionate misure definite a livello nazionale o regionale.
Tenendo in considerazione queste priorità, la Commissione ha cercato di creare una Strategia efficace ma allo stesso tempo flessibile, a seconda dei differenti contesti all’interno dell’Unione Europea.
Infine, la Strategia dev’essere in grado di coordinare ed intensificare le varie azioni internazionali sull’adattamento ai cambiamenti climatici. A riguardo, l’UE aumenterà il supporto alla resilienza climatica internazionale facilitando la fornitura di risorse, gli scambi commerciali ed incentivando la finanza internazionale ad allocare le proprie risorse per le politiche, le misure ed i progetti inerenti all’adattamento ai cambiamenti climatici.
La Strategia è stata accolta in maniera positiva dagli stati membri ed è stata fortemente sponsorizzata dal Vicepresidente della Commissione e Commissario europeo per il clima Frans Timmermans. Difatti, secondo l’olandese, di fronte ad un cambiamento climatico irreversibile, i cui effetti si fanno già sentire all’interno ed all’esterno dell’Unione Europea, la nuova Strategia è un utile strumento per preparare i governi europei alle future sfide portate da nuovi contesti ambientali. Timmermans inoltre sostiene che solamente attraverso una preparazione dettagliata e coordinata, come suggerito dalla stessa Strategia, il continente europeo avrà la possibilità di costruire un futuro resiliente ai cambiamenti climatici4. Proprio queste motivazioni e necessità, che uniscono i governi di diverso colore e credo politico degli stati membri, dovrebbero portare all’approvazione della Strategia che verrà discussa dalla Commissione con i vari paesi nel prossimo giugno durante il prossimo Consiglio “Ambiente”, il quale è responsabile della politica ambientale dell’UE, compresa la protezione dell’ecosistema e l’uso prudente e sostenibile delle risorse.
Attraverso l’approvazione della Strategia, l’Unione Europea entra in una nuova dimensione. Adottando il documento infatti, sia la Commissione che i governi degli stati membri riconoscono come le conseguenze derivate dal cambiamento climatico siano irreversibili o difficilmente modificabili. Di conseguenza, la stessa Unione cambia la propria prospettiva, non focalizzandosi solamente sulla lotta al cambiamento climatico ma riconoscendo come questo processo sia ormai incontrastabile e possa essere solamente mitigato attraverso politiche di adattamento. In questo contesto, il richiamo alla partecipazione degli attori locali, sia di carattere pubblico che privato, assume un ulteriore significato. Infatti, di fronte alla consapevolezza dell’irreversibilità del cambiamento climatico, la Strategia inclusiva della Commissione Europea sembra invitare i decisori politici di tutti livelli ad acquisire una maggiore cognizione di come le conseguenze derivate dalle mutazioni degli ecosistemi non siano delle nozioni astratte ma stiano già portando dei cambiamenti rilevanti all’interno delle società europee. In tale contesto, solo misure intelligenti, rapide, sistematiche e soprattutto coordinate tra i differenti livelli decisionali potranno essere efficaci per la sfida all’adattamento climatico, la quale è ormai diventata una realtà con cui tutti noi dobbiamo avere la consapevolezza di dover convivere ed interagire.
Commissione Europea, “Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the regions”. The European Union, 24 Febbraio 2021. Disponibile all’indirizzo https://ec.europa.eu/clima/sites/clima/files/adaptation/what/docs/eu_strategy_2021.pdf
International Institute for Sustainable Development, “EU Strategy Seeks to Step up Global Engagement on Climate Adaptation”. SDG Knowledge Hub, 1 Marzo 2021. Disponibile all’indirizzo https://sdg.iisd.org/news/eu-strategy-seeks-to-step-up-global-engagement-on-climate-adaptation/
European Union Network for the Implementation and Enforcement of Environmental Law, “New EU strategy on adaptation to climate change”. IMPEL, 25 Febbraio 2021. Disponibile all’indirizzo https://www.impel.eu/new-eu-strategy-on-adaptation-to-climate-change/
European Commission (2021) Executive Vice President Timmermans’ remarks at the press conference on the new EU Climate Adaptation Strategy. 24 February 2021. Brussels. https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/SPEECH_21_808
Un riavvicinamento all’Occidente? Il caso delle relazioni commerciali ucraine con Francia e Giappone
a cura di Italo Durante, Osservatorio sull’Unione europea
Negli ultimi anni, a partire dall’inizio del mandato di Zelensky nel 2019, l’Ucraina si è resa protagonista di un progressivo riavvicinamento alll’Unione Europea e alle entità atlantiche. L’approccio ucraino si concentra sull’aspetto economico, richiedendo uno sforzo sul lungo termine. Per rendere possibile questa inclusione, Kiev ha dovuto vagliare riforme di natura economica e adattare il paese ai flussi del libero mercato internazionale. Questo processo, caratterizzato da un marcato approccio filo-europeista, è stato reso possibile anche grazie agli sforzi della presidenza Poroshenko, precedente a quella dell’attuale presidente Volodimir Zelensky. Il mandato Poroshenko si contraddistinse, infatti, per la firma dell’Accordo di Associazione tra l’Unione Europea e Kiev, entrato in vigore nel 2017.
Recentemente si è tenuto il settimo meeting del Consiglio di Associazione tra Bruxelles e Kiev. Proprio in questa occasione, l’Unione ha riaffermato la sua volontà di sostenere l’indipendenza economica e territoriale dell’Ucraina, notando, nonostante le difficoltà e il momento di crisi economica globale, gli sforzi ucraini nell’attuare una concreta riforma economica nel Paese. Si noti che, in occasione del incontro avvenuto l’11 febbraio 2021, proprio Bruxelles ha ribadito la sua intenzione di instaurare rapporti più profondi con l’Ucraina, firmando l’Accordo di Associazione e l’inerente DCFTA come punto di partenza. [1]
Le relazioni con l’Unione Europea non sono l’unico segnale di avvicinamento ucraino ai framework occidentali. Dal 2008, infatti, Kiev è un membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, grazie alla quale l’Ucraina ha ampliato esponenzialmente i propri orizzonti economici, sempre al fine di corroborare il processo di indipendenza economica dopo il periodo sovietico. In questo senso, Kiev ha avviato un percorso di potenziamento globale delle proprie azioni commerciali arrivando ad instaurare rapporti di libero scambio bilaterale con Israele e ad intraprendere trattative analoghe con il Giappone.
Oltre alla pur centrale questione del profitto economico, è possibile rintracciare in questo approccio una strategia geopolitica votata alla occidentalizzazione dell’Ucraina, ormai esausta della sfera di influenza esercitata dalla Russia e volenterosa di ottenere una possibilità di crescita nazionale come è accaduto per altri Paesi del blocco post-sovietico. Lo dimostra l’accelerazione ucraina sul processo di adesione alla NATO, seppure le relazioni tra le parti siano attive dal 1994. Anche in questo caso, il processo di occidentalizzazione del Paese è graduale e l’ufficializzazione della richiesta di adesione alla NATO arriva soltanto nel 2008. Nell’ultimo anno, anche a causa dell’atteggiamento russo in Crimea e Donbass, Kiev ha cercato di velocizzare il processo di finalizzazione dell’adesione.
Francia e Ucraina: la significativa presenza ucraina nel mercato europeo
Per analizzare il potenziale ucraino sul mercato europeo, consideriamo gli scambi commerciali tra Kiev e Parigi. Questo permette una visione ad ampio spettro della natura della strategia commerciale ucraina, testata nei suoi rapporti a lungo termine con un Paese europeo economicamente solido come la Francia. L’Unione Europea è il primo partner commerciale per l’Ucraina con il 40% di esportazioni. Viceversa, Kiev è il 18esimo miglior partner commerciale europeo, e rappresenta l’1,1% del commercio totale dell’Unione[2]. L’Ucraina esporta principalmente materie prime di natura chimica, mineraria, siderurgica oltre che agricola. Kiev è quindi protagonista nel settore primario e secondario, come dimostrano le sue relazioni commerciali con Parigi.
La Francia rappresenta il quarto partner commerciale europeo per Kiev, per un valore complessivo, nel 2020, di 2,1 miliardi di dollari. La solidità del rapporto commerciale, che non ha duramente sofferto la recessione globale, si fonda proprio sullo scambio di merci per il settore primario e secondario. Parigi esporta verso Kiev principalmente prodotti farmaceutici, autoveicoli e vino. Viceversa, l’Ucraina esporta alti volumi di grano e frutta secca.
Tra i prodotti esportati da Parigi, acquisisce notevole rilevanza il settore delle automotive. In territorio ucraino, il Groupe Renault, già ben avviato nell’area regionale grazie all’asse Renault-Dacia, si è ritagliato il 17% del mercato automobilistico nazionale. Sempre nel settore della mobilità, la Francia è risultata essenziale per Kiev nel 2020. Dopo l’annessione russa della Crimea, mai riconosciuta dall’Unione, , l’Ucraina ha visto Mosca appropriarsi di circa il 75% della propria flotta navale. Nel 2020, la Francia è venuta in soccorso del fabbisogno navale ucraino, siglando un accordo di fornitura navale del valore di 136 milioni di Euro[3].
L’importanza dell’asse Kiev-Parigi non si ferma agli scambi commerciali. Infatti, il reale valore cooperativo tra i due Paesi va analizzato dal punto di vista dei fondi diretti di investimento. Ad oggi, 180 aziende francesi hanno affari di natura commerciale in Ucraina. Nel 2020, il valore degli investimenti diretti francesi in Ucraina ha raggiunto il valore di 1,1 miliardi di dollari. La chiave di questa prosperità risiede al momento negli investimenti nel settore primario e in quello informatico, i quali permettono a Kiev di ampliare la propria capacità d’azione nel settore terziario.
Kiev e Tokyo: un potenziale accordo che piace a Bruxelles
A seguito del recente incontro tra i rappresentanti governativi giapponesi e ucraini è stato ribadito l’interesse reciproco nel continuare le trattative per un accordo di libero scambio. Nello specifico, in data 22 marzo, il Ministro degli Affari Esteri giapponese ha dichiarato la sua intenzione di intrattenere nuovi round di trattative con la controparte ucraina. Come nel caso della Francia, l’Ucraina mantiene già relazioni commerciali con Tokyo per quanto riguarda l’esportazione di materie prime e di beni dallo scarso valore aggiunto.
Questa importante occasione commerciale tra Kiev e Tokyo è in linea con gli interessi europei. Nel 2019, Giappone e Unione hanno firmato il memorandum “Il partenariato sulla connettività sostenibile e le infrastrutture di qualità tra l’Unione Europea e il Giappone” con l’obiettivo di prioritizzare gli investimenti atti ad intensificare la connettività tra Asia Centrale, Balcani Occidentali ed Europa Orientale.
D’altra parte, il preesistente e vigente Accordo di Associazione tra Bruxelles e Kiev getta ottime basi per il governo giapponese, tradizionalmente cauto. Il patto accelera il processo della riforma economica ucraina, che a sua volta rilancia il fatturato commerciale ucraino e la possibilità di investimenti diretti giapponesi. E’ possibile prevedere un graduale aumento del commercio tra Kiev e Tokyo durante i futuri round di negoziazione, ma sarà difficile vedere investimenti diretti giapponesi sino alla sigla del patto di libero scambio. Ciò non deve essere preso come un atto di sfiducia, bensì si tratta di una pratica in linea con l’approccio commerciale giapponese. Tokyo, infatti, a partire dalla sua rinascita durante il mandato Ikeda, Primo Ministro dal 1960 al 1964, ha promosso gli interessi commerciali interni. Questo ha portato a un forte aumento delle esportazioni, offrendo allo stesso tempo dazi commerciali ridottio del tutto inesistenti per l’importazione di materie prime e beni intermedi; una pratica/approccio che si combina perfettamente con la natura produttiva di Kiev.
Questa panoramica delle relazioni commerciali ucraine evidenzia il progredire del riorientamento economico in atto a Kiev. Negli ultimi cinque anni, l’Ucraina si è allontanata progressivamente dalla Russia, proprio partner commerciale storico. Questo processo è avvenuto dopo diversi tentativi russi di bloccare la firma ucraina dell’Accordo di Associazione con l’Unione, facendo leva su pressioni economiche e politiche, oltre che sul fabbisogno ucraino di gas russo. Ora che Kiev è riuscita a ridurre la propria dipendenza dai gasdotti russi, grazie ad una riforma sul gas e ad un asse di scambio creato all’interno dell’Unione Europea, l’Ucraina sembra pronta a finalizzare l’allontanamento economico da Mosca. La stipulazione dell’Accordo rappresenta una possibilità unica per Kiev: entrare nel mercato globale, costruendo una solidità commerciale indipendente, e svilupparsi come paese autonomo, una possibilità negata sin dalla creazione del blocco sovietico. L’avvicinamento all’Unione Europea, infatti, non comporterebbe l’applicazione di una nuova sfera di influenza, come nel caso russo, ma permetterebbe all’Ucraina di prendere in mano il proprio futuro, in ottica ampiamente democratica, e stabilirsi, coadiuvata dal supporto europeo, come una solida forza commerciale nel mercato globale.
[1] “EUR-Lex – 22014A0529(01) – EN – EUR-Lex”. 2021. Eur-Lex.Europa.Eu. https://bit.ly/2RPJHuh.
[2] “Ukraine – Trade – European Commission”. 2021. Ec.Europa.Eu. https://ec.europa.eu/trade/policy/countries-and-regions/countries/ukraine/.
[3] Natalia Datskevych [Online]. “Trade Between Ukraine, France Remains Robust Despite Crisis | Kyivpost – Ukraine’s Global Voice”.09-04-2021. Kyivpost. https://bit.ly/3bt8ifc
Europa nach Merkel: bilancio ed eredità di 16 anni di cancellierato
a cura di Lorenzo Repetti, Osservatorio sull’Unione europea
“Da secoli ormai, i tedeschi sono la più europea di tutte le nazioni europee”1 affermava lo storico Stürmer negli anni in cui si rendeva tra i problematici protagonisti del Historikerstreit, un dibattito sulla memoria del terzo Reich nella ancora acerba Repubblica Federale di Germania. Queste parole accorrevano in realtà a conferma di un eccezionalismo tedesco radicato nella storia del continente e veicolato da portavoce al contempo illustri e controversi quali Nietzsche e Heidegger. La catastrofe hitleriana aveva certo indelebilmente macchiato questa pretesa di supremazia filosofico-culturale. Ne era scaturita una Germania rifondata in chiave ordoliberale, in cui lo Stato rinunciava a qualsiasi ambizione identitaria per portarsi a garante di una libertà economica elevata a fondamento democratico primo ed irrinuciabile2. L’Europa seguì la metamorfosi necessaria di uno Stato del quale per secoli si era percepita come l’emanazione diretta in un rapporto di stretta corrispondenza che Glendinning descrive in questi termini: “la Germania […] ha sempre pensato sé stessa in un orizzonte essenzialmente europeo, un orizzonte europeo che essa inventa e proietta come il contesto del proprio destino spirituale”3. I sedici anni di cancellierato di Angela Merkel non sono quindi significativi solo alla luce della sua longevità politica, ma anche in riferimento ad una storia che fa della Germania il fulcro inaggirabile dell’intero progetto europeo. Capire cosa attendersi da un avvicendamento al governo tedesco diventa allora indispensabile per intuire gli orientamenti futuri dell’Unione Europea (UE).
Gli ultimi sedici anni di cancellierato sono stati contraddistinti da un’estrema mutevolezza politica. Occorre certo sottolineare che Merkel, affettuosamente soprannominata die Mutti (mamma), ha saputo rappresentare un polo di stabilità in un contesto politico quanto meno volubile. In Germania, Merkel rimane figura di garanzia alla guida di ben quattro governi che portano la coppia CDU-CSU ad allearsi alternativamente con liberali e socialdemocratici in un contesto marcato dall’approdo dell’estrema destra AfD in Parlamento e dall’emergere dei Grüne (Verdi) come principale contendente politico di opposizione. A livello europeo, die Mutti sopravvive a tre diversi Presidenti francesi ed a ben otto Presidenti del Consiglio italiani. Merkel resiste dapprima agli attacchi della sinistra del greco Tsipras e successivamente alle invettive delle destre estreme europee di cui Salvini non rappresenta che il volto più recente. A garantire la solidità della cancelliera tedesca è quindi una questione più di carisma personale e metodo che di coerenza politico-ideologica. Convinta sostenitrice di una politica “al centro del centro”4 e senza mai rinunciare ad una difesa strenua dei valori di mercato come fondamento retorico e fattuale della legittimità democratica5, la cancelliera ha, nel corso degli anni, sostenuto iniziative di segno radicalmente opposto ma spesso capaci di intercettare il sentire comune dei propri connazionali e di una parte consistente degli europei. Se nel 2015 Merkel accoglie svariate centinaia di migliaia di profughi facendo suo lo slogan Wir schaffen das (ci riusciremo), il suo ravvedimento non tarda a manifestarsi negli anni successivi, come testimonia il suo silenzio di fronte ai disastri umanitari registrati nei Balcani e nel Mediterraneo6. Cambi repentini si registrano anche sui fronti dell’energia nucleare e dei diritti civili. Ancora più radicale è il ribaltamento del posizionamento tedesco a livello europeo con Merkel che, da falco rigorista in occasione della crisi del debito sovrano (2010-2012), diventa uno dei principali sponsor politici dell’espansionistico Next Generation EU su cui i voti decisivi intervengono nel corso della sua presidenza rotante7. La cancelliera incarna quindi perfettamente il ruolo di egemone riluttante che la Germania ha assunto in Europa e per cui il sociologo Urlich Beck coniò il termine Merkiavelli8. Merkel sarebbe allora sinonimo di una leadership temporeggiatrice e flessibile votata a rincorrere gli eventi per proporre soluzioni di mediazione che impediscano ad una crisi di risolversi in un esito catastrofico.
Se tracciare un bilancio dell’azione politica di Merkel non è certo banale, definirne il lascito sembra essere ancora più complicato. Il dibattito interno alla storica Unione tra i cristiano-democratici e i social-democratici bavaresi rispetto alla designazione del suo successore alla cancelleria è un chiaro sintomo di quanto sia ambigua l’eredità politica di Merkel. A uscirne vincitore è stato il delfino di Merkel, il centrista e presidente della Renania Settentrionale – Vestfalia Armin Laschet. Tuttavia, la popolarità del Presidente del Land di Baviera Markus Söder, saldamente ancorato ad una destra conservatrice e recentemente riconvertita all’ecologismo, e le sue recenti pretese di guidare la coalizione in vista delle prossime elezioni nazionali sono la prova tangibile di come la politica altalenante di Merkel abbia dato vita ad un fondo ideologico indefinito su cui si potrebbero innestare scenari marcatamente diversi. Questo scontro interno si inserisce in un momento di crisi per la cancelliera che, pur avendo spinto per l’utilizzo anche in sede europea del vaccino russo Sputnik V9, è stata costretta a scuse pubbliche di fronte ad una gestione approssimativa delle restrizioni pasquali ed al rischio di collasso del sistema sanitario nazionale in occasione della terza ondata di COVID-1910. Se i Grüne minacciano allora di imporsi come primo partito ai danni dell’Unione CDU-CSU, ci si avvierà molto probabilmente ad un governo di coalizione tra questi due attori. Anche in questo caso, sebbene si aprano ancora una volta una moltitudine di scenari, non si dovrebbero registrare scostamenti importanti rispetto alla linea politica gestionale di Merkel. Già in occasione della precedente esperienza di governo al fianco della SPD (1998-2005), i Grüne avevano mostrato un allineamento sostanziale rispetto ai principi classici dell’ordoliberalismo tedesco arrivando ad affermare: “Nessuno può fare politica contro il mercato”11. Rispetto a Söder, Armin Laschet rappresenta sicuramente il volto più morbido e meno rigorista della CDU in chiave europea e, in continuità con Merkel, dovrebbe perseguire un consolidamento senza eccessi retorici dell’autonomia strategica EU e un rapporto di maggiore distensione nei confronti di Cina e Russia12. Se i Grüne dai banchi dell’opposizione hanno spesso dato prova di un euroscetticismo moderato e sostenuto la necessità di rivedere i trattati, la precedente esperienza di governo ha visto questa anima contestataria soccombere di fronte a toni più concilianti e contenuti meno radicali13.
Nessuno stravolgimento consistente dell’equilibrio europeo dovrebbe quindi provenire da una Germania post-Merkel. Si aprirebbe quindi uno spazio per altri leader europei e per le loro aspirazioni a livello continentale. Replicare il successo di Merkel sarà però difficile. In questi anni, Merkel non ha certo dimostrato qualità da visionaria o da fervente ideologa ma ha saputo garantire la compattezza dell’UE facendosi promotrice di un multilateralismo senza fasti chiaramente orientato al compromesso e al ripristino di una situazione di seppur precario equilibrio14. L’improbabile maggioranza parlamentare a sostegno di Draghi fa dell’autorevole Presidente del Consiglio italiano un candidato debole. Pur avendo inspirato buona parte delle misure che hanno rilanciato l’azione dell’UE negli ultimi anni risvegliandola da un insostenibile immobilismo, il Presidente francese Macron è una figura troppo dirompente e divisiva le cui idee non si sarebbero affermate senza la necessaria edulcorazione offerta dalla sua controparte tedesca15.
Come suggerito dall’ambivalenza semantica del termine tedesco nach, l’Europa dopo Merkel rischia quindi di essere anche un’Europa secondo Merkel. In Merkel abbiamo trovato un’interprete fedele del ruolo costitutivamente ambiguo di leader tedesca e continentale. Se Merkel si è quindi inserita in una storia che le preesisteva, la sua credibilità e le sue capacità politiche hanno rafforzato l’idea di un’Europa come sede (a)politica della mediazione. I prossimi sviluppi ci diranno se è in un approccio dal basso e non nella ricerca di un nuovo tutore (a)politico che, con la Conferenza sul Futuro dell’Europa, si registrerà un ripensamento complessivo della natura e della missione dell’UE.
Stürmer, M. (1986) Dissonanzen des Fortschritts: Essays über Geschichte und Politik in Deutschland. Munich, Piper, p. 224
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European Peace Facility: il supporto militare dell’Unione tra unanimità e garanzie
05/05/2021
A cura di Marco Monaco, Osservatorio sull’unione Europea
Nel corso dell’ultima riunione del Consiglio “Affari Esteri” dell’Unione Europea (UE), presieduto dall’Alto Rappresentante dell’Unione Josep Borrell, i membri del Consiglio hanno adottato una decisione per l’istituzione dell’European Peace Facility (EPF), uno strumento finanziario che sostituirà i preesistenti meccanismi di Athena e dell’African Peace Facility. [1] Concepito come un fondo off-budget per il periodo 2021-2027, il nuovo strumento europeo per la pace dovrebbe rappresentare un mezzo per acquisire una maggiore capacità di preservare la pace internazionale da parte dell’UE, fornendo un fondo unico e di respiro globale per il finanziamento dei costi comuni delle operazioni internazionali dell’UE ed integrando queste ultime con adeguate misure di assistenza. [2] Le spese a carico dello strumento saranno circoscritte alle missioni o agli strumenti con specifiche implicazioni militari e/o di difesa, con l’idea di fondo di donare all’Unione una maggiore flessibilità ed impatto nel supporto dei paesi partner per il mantenimento della propria stabilità, la gestione di potenziali crisi e la prevenzione di eventuali conflitti. [3]
Come qualsiasi nuova variabile che vada ad inserirsi nel contesto della politica estera e di sicurezza europea, il neonato strumento dell’EPF solleva diversi temi centrali per l’evoluzione ed il percorso dell’UE come attore di sicurezza. Come già accennato, l’idea sottostante la creazione del nuovo strumento deriva dalla necessità dell’Unione di acquisire maggiori capacità e credibilità nella propria azione esterna di intervento (e soprattutto di supporto) nei teatri che lo richiedono. In questo contesto, uno degli elementi che da sempre ha caratterizzato, e spesso ostacolato, la conduzione di una politica estera e di sicurezza europea efficace è rappresentato dalla natura intergovernativa di quest’ultima. In altre parole, se da una parte molti elementi della politica europea vengono gestiti tramite un metodo comunitario, e dunque in una dimensione sovranazionale, con una forte influenza da parte delle istituzioni europee, quando si entra in ambito militare tale influenza viene meno. Nello specifico, ad essa si sostituisce un controllo pressoché totale degli stati membri, che detengono un potere decisionale e di veto, grazie all’influenza del Consiglio Europeo ed ai meccanismi di voto all’unanimità. [4] Il nuovo Strumento Europeo per la Pace sembra inserirsi proprio in quest’ultimo contesto, senza apportare alcuna modifica (o progresso, a seconda delle prospettive) alla conduzione della politica di sicurezza. Non è un caso che il bilancio e le operazioni dell’EPF verranno controllate, discusse ed approvate da un Comitato appositamente istituito, composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro. Il Comitato, com’è prevedibile, deciderà all’unanimità, complicando il raggiungimento di un accordo rispetto al budget annuale dello strumento e allo stanziamento dei fondi per operazioni e misure di assistenza. [5] Sebbene alle riunioni del Comitato potranno partecipare gli altri addetti ai lavori, inclusi i comandanti di ciascuna operazione ed i rappresentanti del servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) e dell’Agenzia Europea per la Difesa (AED), questi ultimi non avranno voce in capitolo al momento delle votazioni.
Analogamente, il fatto che il fondo sia concepito come off-budget (dunque al di fuori dei costi compresi nel budget dell’UE) rappresenta un ulteriore sintomo di continuità con la dottrina intergovernativa degli affari militari. In ottemperanza all’articolo 41, paragrafo 2 del Trattato sull’Unione Europea, le spese derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa non possono essere a carico dell’Unione, a meno che il Consiglio non deliberi altrimenti all’unanimità. [6] Per tale motivo, l’European Peace Facility verrà interamente finanziato attraverso contributi diretti degli Stati membri, sulla base del loro prodotto nazionale lordo, consolidando un forte controllo dei governi nazionali.
Ad onor del vero, risulta corretto spezzare una lancia in favore di alcuni accorgimenti inseriti nella decisione che istituisce l’EPF, i quali potrebbero fungere da attenuanti verso i poteri di veto. A quanto viene riportato, uno stato membro che si rifiuti di contribuire economicamente ad una specifica operazione o misura di assistenza non parteciperà alla votazione del Comitato, rendendo dunque più complessa l’opposizione da parte di un singolo governo contrario, il cui rappresentante potrà comunque partecipare alle riunioni. Inoltre, nel momento in cui il budget annuale è stato fissato, uno stato membro che non contribuisce ad un’operazione o misura di assistenza approvata dal resto del Comitato, dovrà contribuire con finanziamenti supplementari ad altre operazioni (già attive o future), compensando la mancata partecipazione e garantendo il rispetto del contributo inizialmente previsto. Infine, per le questioni procedurali il Comitato delibererà a maggioranza, invece che all’unanimità. [7] Elementi di questo tipo, seppur utili a limitare lo stallo in potenziali casi di attrito tra gli stati membri, non eliminano tuttavia l’ostacolo potenzialmente più gravoso, ovvero la necessità di raggiungere un voto unanime. Se la discrepanza di vedute tra gli stati membri emergesse successivamente all’approvazione di una misura di assistenza o operazione, è probabile il processo decisionale ne risulterebbe bloccato, o quanto meno fortemente rallentato.
Un secondo tema sollevato dal nuovo strumento finanziario concerne il livello di rischio che si accompagna alla fornitura militare in favore di paesi terzi. Le misure di assistenza previste all’interno del meccanismo dell’EPF avrebbero lo scopo di rafforzare le capacità di risposta militare degli stati terzi e di organizzazioni internazionali che presentano richiesta in situazioni di crisi.
Già alla fine dello scorso anno, una dichiarazione firmata da quaranta organizzazioni della società civile avvertiva riguardo ai rischi legati alla fornitura di assistenza militare nei confronti di Paesi terzi, i quali potrebbero utilizzare i fondi, strutture o materiali provvisti per reprimere con violenza le proteste civili, in violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. [8] Non è complesso immaginare uno scenario simile in relazione all’attuale dibattito in sede del Consiglio Affari Esteri in merito alla necessità di “un partenariato più forte, più stretto e più efficace” [9] con gli stati del vicinato meridionale. La priorità europea di risolvere problemi legati a conflitti, migrazioni e terrorismo internazionale porta con sé un reale rischio di abuso nei confronti dei civili da parte dei governi coinvolti. Se ciò si verificasse successivamente allo stanziamento di fondi tramite l’EPF è probabile che l’Unione si troverebbe in grave difficoltà, sia al livello gestionale che diplomatico.
Anche in relazione a ciò, il documento ufficiale approvato a fine marzo prevede la sospensione, da parte del Comitato Politico e di Sicurezza (CPS) dell’UE, di qualsiasi misura di assistenza concessa tramite l’EPF in casi di violazione degli obblighi contrattuali o del diritto internazionale, con particolare riguardo per il diritto internazionale umanitario ed il diritto internazionale dei diritti umani. In aggiunta a ciò, l’European Peace Facility è stato dotato di un duplice meccanismo di revisione, interna ed esterna, per garantire la qualità dei sistemi di gestione e controllo dei finanziamenti. [9] Se queste misure siano sufficienti ad impedire l’abuso dei fondi o del supporto materiale stanziato dall’Unione a beneficio di stati terzi in potenziali casi di crisi è certamente complesso da definire allo stato attuale.
Ciò che si può sostenere con relativa sicurezza, tuttavia, è che il neonato strumento europeo per la pace, lungi dal rappresentare un’innovazione decisa nell’approccio dell’UE alle crisi internazionali, costituisce un ulteriore tassello nella serie di misure europee ben strutturate in prospettiva di tempi di armonia ed azione coordinata, ma potenzialmente molto fragili all’emergere di disaccordi interni o casi limite che mettano alla prova la credibilità dell’intera Unione Europea.
Consiglio dell’Unione Europea. [Online]. Consiglio “Affari esteri”, 22 marzo 2021. Visitato in data 10 aprile 2021 https://bit.ly/2PnfSjM
Consiglio dell’Unione Europea [Online]. L’UE istituisce lo strumento europeo per la pace, Comunicato Stampa 22 marzo 2021. Visitato in data 11 aprile 2021 https://bit.ly/2QUcH3z
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Verso la sovranità digitale europea: il Decennio Digitale
30/04/2021
Giovanni Maggi, Osservatorio sull’Unione europea
Con la presentazione del Digital Compass 2030, l’Europa torna a cavalcare l’onda dell’innovazione tecnologica. Infatti, il 9 Marzo 2021 si è aperto il decennio digitale dell’Unione Europea, che ha come obiettivo l’acquisizione della sovranità digitale.
Per meglio comprendere cosa ciò significhi, facciamo prima un passo indietro. Il concetto di sovranità nasce nel sedicesimo secolo con il filosofo francese Jean Bodin, il quale lo definì come l’autorità di un leader politico di prendere decisioni definitive. In un secondo momento, Jean-Jacques Rousseau rielaborò questa definizione, introducendo la concezione di sovranità popolare, contrapposta a quella monarchica di Bodin. Oggi, il concetto ha due volti: una dimensione esterna – l’indipendenza dello Stato rispetto ad altri Stati – e una interna – il monopolio del potere statale entro i propri confini [1].
La rivoluzione digitale e l’avvento di internet hanno portato con sé diverse sfide per gli Stati e la loro sovranità. Due di queste minacce, particolarmente rilevanti all’epoca della loro concettualizzazione, sono state denominate “cyber exceptionalism” e modello di “multi-stakeholder internet governance”. La prima sostiene che la nascita delle reti digitali avrebbe portato alla fine della concezione territoriale di sovranità [2]. La seconda è l’ipotesi secondo cui internet sarebbe governato da una molteplicità di attori non sovrani [3], andando così a costituire una minaccia alla sovranità statale. Le previsioni legate a queste due teorie, entrambe sviluppate negli anni Novanta, si sono generalmente rivelate lontane dalla realtà [4]. La prima, infatti, rimane valida solo nel caso delle cripto-valute, fallendo quando applicata ad altri contesti. Nel caso della seconda, il controesempio più evidente è la tendenza alla regionalizzazione delle reti digitali portata avanti tanto da governi autoritari quanto da quelli democratici.
Nel 2013, le rivelazioni di Edward Snowden hanno svelato le azioni di sorveglianza globale condotte dagli Stati Uniti e dai loro alleati [5], dimostrando come il potere egemonico possa essere esercitato anche tramite la raccolta, l’analisi e il controllo dei dati. In questo modo, il discorso politico intorno alla sovranità digitale, sia essa intesa come nazionale o regionale, si è riacceso. Il concetto è diventato così un potente strumento retorico in ambito politico. Come tale, la definizione specifica di “sovranità digitale” varia in base ai contesti in cui l’espressione viene utilizzata e al genere di autodeterminazione – statale, aziendale o individuale – che viene enfatizzata. Nello specifico, se l’attenzione viene posta sull’autonomia statale o regionale, la sovranità digitale sarà intesa come controllo delle infrastrutture digitali. Invece, se si prendono in considerazione gli ambiti statali e aziendali, per sovranità digitale si intenderà un’autonomia economica, cioè l’autonomia dell’economia nazionale da tecnologie e servizi esteri. Infine, l’autonomia individuale produce una definizione di sovranità digitale come autodeterminazione del cittadino nei suoi ruoli di impiegato, consumatore e utente di servizi o tecnologie digitali [6].
Nella comunicazione inviata dalla Commissione alle istituzioni europee lo scorso 9 Marzo, che ha dato vita alla “Bussola Digitale 2030”, le tre dimensioni della sovranità digitale sono sviluppate nella loro interezza. Il “decennio digitale” dell’UE sviluppa quattro aree principali: infrastrutture digitali sicure e sostenibili, trasformazione digitale delle imprese, competenze digitali dei cittadini e digitalizzazione dei servizi pubblici [7]. Al fine di raggiungere gli specifici obiettivi stabiliti dall’Unione, gli Stati membri si impegnano a destinare almeno il 20% dei piani per la ripresa e la resilienza nazionali alle questioni digitali [8].
L’ambizione della Commisione von der Leyen è di ridurre al minimo la dipendenza europea da infrastrutture, tecnologie e servizi prodotti o gestiti da enti al di fuori dei propri confini. Infatti, al momento l’infrastruttura di internet risiede per la maggior parte in Cina e Stati Uniti, così come principalmente cinesi e statunitensi sono le aziende che forniscono i servizi digitali. Per far fronte a questa dipendenza infrastrutturale, entro il 2030 verrà creata una rete interna all’UE tramite l’installazione di 10,000 nodi periferici a impatto climatico zero. Ciò permetterà di gestire direttamente le azioni di analisi e raccoglimento dei dati dei cittadini europei, riducendo così i rischi legati alla cyber security e permettendo alle PMI (Piccole e Medie Imprese) europee di beneficiare dall’uso di tali dati [8]. Inoltre, la produzione di microchip e semiconduttori avviene principalmente in Asia. L’UE punta a cambiare anche questo, ambendo ad acquisire una fetta di mercato equivalente al 20% della produzione mondiale – oggi ne detiene circa il 10%. Un terzo punto importante sviluppato nella comunicazione concerne la ricerca nel campo della computazione quantistica [10]. Oggi, la frontiera quantistica trova il suo maggior polo di ricerca in Cina, dove è sostenuta da investimenti pubblici e privati che superano i 10 miliardi di dollari – a fronte di 1,2 miliardi negli Stati Uniti e di un programma Europeo che si trova ancora agli inizi. Lo sviluppo di un proprio computer quantistico renderebbe l’UE indipendente dal know-how cinese e americano. Secondo la Commissione, la computazione quantistica rappresenta la nuova frontiera digitale, permettendo di risolvere in poche ore o minuti quei problemi che oggi richiedono mesi [11].
Ridurre la dipendenza da tecnologie e servizi esteri è necessario se il fine è quello di raggiungere una vera e propria sovranità in campo digitale. La proposta di iniziative come Gaia-X – il servizio cloud europeo – e la Schengen Routing idea – l’idea che mira a limitare il flusso dei dati entro i confini europei – sono tutti passi verso il raggiungimento questi obiettivi [12]. Ad ogni modo, è necessario anche prendere in considerazione il fatto che, oltre a ridurre la dipendenza dell’UE da altri stati, l’acquisizione della sovranità digitale implica la creazione di inevitabili infrastrutture di controllo – e possibile manipolazione. Le operazioni che porterebbero a raggiungere i traguardi dell’Unione hanno una natura invasiva. Dal punto di vista retorico, il raggiungimento della sovranità digitale non può quindi essere identificato con la difesa dei valori democratici, come viene invece spesso ripetuto in Europa. Il raggiungimento degli obiettivi UE non assicura automaticamente la creazione di una sfera digitale ordinata, sicura e guidata da valori democratici ma semplicemente l’acquisizione di un’autonomia Europea in questo campo. Questa autonomia non è un fine in sé e la sua implementazione deve essere guidata in modo da evitare un secondo caso Snowden. Al fine di creare una sovranità digitale che sia veramente democratica, è necessario un dibattito puntuale riguardo ai metodi e alle procedure, che rendano la trasparenza e la responsabilità delle potenze sovrane requisiti chiave in campo digitale.
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[10] INRIA (16 Dec. 2020), Who are the main players in the world of quantum computing?, retrieved from https://bit.ly/2S4biYR
[11] Communication of the European Commission (2021), “2030 Digital Compass: the European way for the Digital Decade”, p. 8 https://bit.ly/3vdjMuU (Accessed March 2021)
[12] Pohle, J. & Thiel, T. (2020), “Digital sovereignty”, p. 8-12. Internet Policy Review, 9(4) https://doi.org/10.14763/2020.4.1532
L’uguaglianza di genere in Macedonia del Nord tra interventismo europeo e politiche nazionalistiche
26/04/2021
Elisabetta Crevatin, Osservatorio sull’Unione europea
La dichiarazione di Ankara, rilasciata il 20 marzo riguardante il ritiro della Turchia dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (2011), è un segnale di grave retrocessione della parità di genere nel paese, essendo tale trattato una conquista fondamentale del movimento femminista occidentale degli ultimi anni.[1] Tale esempio, inoltre, non è caso isolato in un’Europa che ha visto diversi suoi paesi regredire in merito all’emancipazione femminile, tra cui la Polonia che tra il 2020-21 ha limitato il diritto all’aborto e la Macedonia del Nord che ha agito in modo similare durante il decennio scorso.[2] Dal punto di vista giuridico, questi eventi sono campanelli d’allarme in quanto le leggi inerenti il diritto di interruzione della gravidanza e la protezione delle donne vittime di violenza di genere dovrebbero essere state più che internalizzate dalla popolazione occidentale, e quindi difficilmente messe in discussione dai governi europei.
Ritornando sulla questione macedone, il precedente governo guidato dal partito VMRO-DPMNE e indicato dall’Unione Europea come causa del processo di declino democratico e dello “stato di cattura”[3] delle istituzioni pubbliche, ha portato alla politicizzazione dei diritti delle donne e alla decisione dell’ex-presidente Nikola Gruevski di modificare la legge sull’interruzione della gravidanza (2013).[4] Con questa mossa politica, è stato imposto l’obbligo alle donne che vogliono abortire di seguire un processo di counseling in cui la controparte maschile deve essere partecipe.[5] A seguito di una campagna mediatica organizzata dal governo per discreditare i movimenti di promozione dei diritti umani, in molti si sono chiesti come ciò sia potuto avvenire in un paese in cui l’Unione Europea (UE) svolge un ruolo cardine nel promuovere l’uguaglianza di genere conformemente allo schema generale dell’allargamento UE.[6]
L’Unione, appunto, è il maggiore finanziatore di programmi volti allo sviluppo della Macedonia e il principale arbitro delle relazioni politiche del paese fin dalla creazione della Costituzione di Ohrid (2001). Bruxelles ha inoltre ulteriormente rafforzato il suo ruolo da quando lo stato balcanico ha ricevuto lo status di paese candidato all’UE (2005).[7] Tramite la sua condizionalità, l’Unione Europea ha incentivato le istituzioni macedoni a dotarsi di leggi che siano in linea con l’UE gender acquis, tra cui la legge anti-discriminazione (2018), la legge per la pari opportunità e i pari diritti delle donne e degli uomini (2015), e quella per le relazioni lavorative (2005).[8] Numerosi piani d’azione sono stati redatti per implementare queste leggi, e il Ministro per il Lavoro e le Politiche Sociali ha ricevuto l’incarico di monitorare tale processo.[9] Di conseguenza, la Macedonia del Nord è attualmente considerata come uno dei paesi dell’Est Europa con il più avanzato sistema giuridico in materia di parità di genere.[10]
Con queste premesse, quindi, la precedentemente citata limitazione del diritto all’aborto, nonché la proposta governativa di cambiare l’indirizzo universitario gender studies in family studies, richiedono una riflessione più accurata sull’impatto che l’Unione Europea sta avendo a lungo termine in tale materia.[11]
Per iniziare, i report del 2019 e 2020 della Commissione Europea hanno osservato come le leggi sulla parità di genere in Macedonia sono allo stato embrionale per quanto riguarda la loro implementazione.[12] Gli uffici predisposti a renderle operative mancano dei fondi necessari per monitorare costantemente la situazione sul territorio, e i centri di accoglienza per la protezione contro la violenza sulle donne non sono tempestivi nel soccorrere le vittime e nel coordinarsi con le forze dell’ordine.[13] Le difficoltà economiche però non sono gli unici motivi per cui i diritti di genere rimangono sulla carta, in quanto la cultura patriarcale continua a stigmatizzare i tentativi femministi di emancipazione politica e sociale.[14] A livello mediatico, ad esempio, le donne vengono spesso ritratte nel tradizionale ruolo di madri e mogli, mantenendo quindi una rigida separazione dei ruoli di genere.[15] La condizionalità dell’Unione europea in Macedonia dunque è forte nella fase di creazione delle leggi ma viene meno nella successiva fase applicativa.[16]
La seconda fonte di problematiche è stata la disputa tra Grecia e Macedonia riguardante il nome di quest’ultima, in quanto tale crisi diplomatica ha rallentato il processo di allargamento dell’UE e posticipato l’entrata della Macedonia nella NATO.[17] Tale stagnazione ha contribuito al rafforzamento di un clima euroscettico, soprattutto nel periodo del governo di Gruevski, durante il quale il soft power europeo è stato molto debole.[18] Pertanto, le politiche nazionalistiche hanno marginalizzato questioni inerenti ai diritti umani, tra cui l’emancipazione femminile, e limitato la libertà di voto e di espressione dei cittadini macedoni.[19]
Per oltrepassare questi ostacoli, l’UE ha investito in progetti mirati alla sensibilizzazione della popolazione e sovvenzionato organizzazioni no-profit in modo da rafforzare la società civile femminista.[20] Numerosi workshops e campagne transnazionali – come l’European Women’s Lobby, il più grande network dell’UE composto da associazioni che promuovono la parità di genere – hanno quindi incentivato diverse categorie sociali ad attivarsi per la causa e a contribuire proattivamente al movimento.[21]
A livello diplomatico, l’Unione Europea ha condannato le azioni di Gruevski e appoggiato le proteste pacifiche avvenute nel 2013 e la Rivoluzione Colorata del 2017, che hanno portato alle dimissioni dell’ex-premier e alla costituzione di un nuovo governo.[22] Il partito SDSM ha quindi preso il controllo del governo macedone , anche grazie all’appoggio mediatico europeo, con un’agenda politica che sta dando priorità alla parità di genere, rendendo ad esempio operative le quote rosa nel parlamento e ponendo le donne in posizioni di rilievo sulle liste elettorali.[23]
Se quindi il clima politico attuale è più favorevole per l’avanzamento dei diritti di genere, grazie anche alla fondamentale influenza dell’Unione Europea, c’è ancora molto su cui lavorare. La pandemia di Covid-19 ha inasprito i fragili equilibri creatisi tra donne e uomini nel corso degli ultimi anni, portando ad esempio ad un drastico aumento dei femminicidi e delle violenze domestiche probabilmente derivato dalla convivenza forzata durante i vari lockdown.[24] Il concetto di “intersezionalità” promosso dall’UE rimane inoltre inapplicato sia negli organi esecutivi che nella società civile, considerato che le persone che soffrono di discriminazione derivate dal loro genere, orientamento sessuale, etnia e reddito non beneficiano di una protezione adeguata dagli enti preposti a tale scopo.[25]
La Macedonia del Nord è quindi un chiaro esempio di quanto un agente estero, in questo caso l’Unione Europea, può condizionare l’avanzamento dei diritti umani in paesi candidati all’adesione.[26] Al tempo stesso, l’emancipazione femminile è un processo lungo e complesso che richiede l’intervento sincrono di molteplici attori governativi e privati, mirato a parificare i rapporti di genere dalla politica, al lavoro, per non dimenticare la salute e l’educazione.[27] In aggiunta, è fondamentale coinvolgere la società civile in questo procedimento, in modo tale che i programmi mirati alla parità di genere non vengano applicati in modo asettico e verticale, ma corrispondano alle esigenze localizzate della popolazione. Senza tutti questi tasselli, altrimenti, è facile che in Macedonia si ripropongano situazioni come quella del 2013, ed è quindi imperativo continuare a impegnarsi per creare una società in cui donne e uomini abbiano – per davvero – pari opportunità e diritti.
[1] Christa Schweng. [Online] President Erdoğan’s decision to withdraw Turkey from the Istanbul Convention is a sad day for women’s rights. European Economic and Social Committee, 2021. https://bit.ly/3sIJvcX
[2] Euronews. [Online] EU criticises Poland’s abortion ban as it reminds member states to ‘respect fundamental rights’. Euronews, 2021. https://bit.ly/32AU9Ii
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[6] Ibid.
[7] Maria Koinova. Challenging assumptions of the enlargement literature: The impact of the EU on human and minority rights in Macedonia. Europe-Asia Studies, 63(5), 2011. https://bit.ly/3dIYxLO; Lidija Hristova and Aneta Cekik. The Europeanisation of interest groups: EU conditionality and adaptation of interest groups to the EU accession process in the Republic of Macedonia. East European Politics 31.1, 2015. https://bit.ly/3dHJOkb
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[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Ana Miškovska Kajevska. A foe of democracy, gender and sexual equality in Macedonia: The worrisome role of the party VMRO-DPMNE. Politics and Governance, 6(3), 2018. https://bit.ly/3xaQjUa
[12] European Commission (2019), Country report; European Commission, Biljana Kotevska. Country report, Gender Equality: How are EU rules transposed into national law? Republic of North Macedonia. Luxembourg: Publications Office of the European Union. Luxembourg: 2020. https://bit.ly/2QiyNgm
[13] Ibid.
[14] Andrea Spehar. This far, but no further? Benefits and limitations of EU gender equality policy making in the Western Balkans. East European Politics and Societies, 26(2), 2012. https://www.ceeol.com/search/article-detail?id=906385
[15] Biljana Kotevska and Elena Spasovska. Op. cit.
[16] Maria Koinova.. Op. cit.
[17] Simonida Kacarska. The EU in Macedonia: From inter-ethnic to intra-ethnic political mediator in an accession deadlock. The EU and Member State Building—European Foreign Policy in the Western Balkans, 2015; Alessio Corsato. Il processo di allargamento dell’UE ai Balcani occidentali: i casi di Macedonia del Nord e Montenegro. Centro Studi Internazionali, 2021. https://bit.ly/3tKR1oX
[18] Florian Bieber. Patterns of competitive authoritarianism.
[19] Tanja Paneva. The Right to Vote in Conditions when the Ruling Party Equals the State. Case Study on Macedonia: Progressive Control, Regressive Democratization. International Journal on Rule of Law, Transitional Justice and Human Rights 7.7, 2016. https://www.ceeol.com/search/article-detail?id=726021
[20] Danica Fink-Hafner. The Development of Civil Society.
[21] Andrea Spehar. This far, but no further?.
[22]Biljana Vankovska. The Chimera of Colorful Revolution in Macedonia: Collective Action in the European Periphery. Balkanologie. Revue d’études pluridisciplinaires 15.2, 2020. https://journals.openedition.org/balkanologie/2583
[23] European Commission (2020), Country report; Sinisa Jakov Marusic [Online] North Macedonia Ruling Alliance Pushes Gender Equality in Elections. Balkan Insight. Skopje: 2020. https://bit.ly/3v9K9lu
[24] Council of Europe [Online] Improving media reporting on gender-based violence with the media regulatory authority and self-regulatory body for media ethics in North Macedonia. Council of Europe, Skopje: 2020. https://bit.ly/3naVDSS
[25] European Commission (2020). Country report.
[26] Elisabetta Crevatin (supervised by Salvador Santino Regilme). Prisoners of Consociationalism? Between Gender Equality and Ethnic Conflict in Bosnia-Herzegovina and North Macedonia. Leiden University Student Repository. Leiden: 2020. https://bit.ly/3njwB47
[27] Ibid.
Il team
- Emanuele Errichiello, Responsabile del Programma (EU Political Economy, EU Trade and Foreign Relations, Mezzogiorno, Public Policy analysis, qualitative methods, Political Philosophy)
- Andrea Barbato (CSDP – Operazioni e missioni civili e militari dell’UE, Security Stratégies, EU-Latin America)
- Valentina Berneri (EU institutions, Public Policy Analysis, Sustainable Business, EU Energy & Climate Policy)
- Simone Biggio (Arctic Policy, Cohesion Policy, Regional Development, EU institutions)
- Stefania Calciati (Political Theory, Contemporary Philosophy, EU-China, EU External Action, Public Policy Analysis, Peacekeeping & Peacebuilding)
- Alessio Corsato (EU institutions, EU trade and foreign relations)
- Elisabetta Crevatin (Security and defence, Asylum and Migration Policy, EU enlargement, EU institutions, democratization and peacebuilding, Human Rights)
- Elisa Desiglioli (International Migrations, EU Institutions, CEE Integration in EU, IR in Global South)
- Gabriele Favarò (EU Political Economy, Asylum and Migration Policy, EU-China)
- Giulia Franco (EU Institutions, EU Cohesion Policy, EU Trade Policy and Internal Market, EU Neighborhood Policy)
- Irene Fratellini (Political Theory, Public Policy Analysis)
- Erika Frontini (EU Institutions, Democracy & Rule of Law, Enlargement)
- Giuliano Formisano (Political Economy, quantitative methods, statistics)
- Mario Ghioldi (EEAS, Political Economy, EU Trade and Foreign Relations, EU development aid, DG INTPA)
- Giovanni Maggi (Digitalisation and Artificial Intelligence, Political Polarization, Cybersecurity, Conflict resolution, Political and Moral Philosophy)
- Irene Malusà (Human Rights, Digitalisation and Artificial Intelligence, Disarmament, Climate Policy, EEAS)
- Luca Mazzacane (EU – Russia, East European policy analysis, East Europe trade and foreign relations, Energy market and energetic infrastructure development in East Europe)
- Marco Monaco (Security and Defence in the EU, EU international CSDP missions, CBRN threats and risks, Terrorism and Political Violence)
- Alessandra Mozzi (EU Public Law and Civil Rights System, EU Case law)
- Federica Pesci (EEAS – Pesc/Pesd, Economic and political agreements with Third Countries, EU institutions)
- Lorenzo Repetti (Political Theory, Continental Philosophy, Security and Defence, EU Institutions, qualitative methods)
- Sam Williams (Environment, EU Energy & Climate Policy, EU-UK & EU-TK)