Prematuro peccato o trionfo: le due facce dell’accordo bilaterale per gli investimenti UE-Cina
CSI BULLETTIN

26 gennaio 2021
Luca Tonelli
Il Comprehensive Agreement on Investment (CAI) è realtà, fotofinish diplomatico di un 2020 che non ha risparmiato colpi di scena. Inatteso sprint finale agli occhi di Bruxelles, è invece da considerarsi una falsa partenza stando al Biden-pensiero, un accrocchio politico che pone seri dubbi sull’affidabilità del Vecchio Continente nel duello con la Cina.
Il 30 dicembre 2020, dopo sette anni di attesa e 35 rounds di negoziazioni, l’Unione Europea e la Repubblica Popolare Cinese hanno formalizzato un comune accordo sugli investimenti, soppiantando venticinque preesistenti trattati bilaterali fra Pechino e vari stati membri.
Sin dall’inizio delle trattative con la Commissione Barroso nel lontano 2013, l’UE ha mirato alla creazione di un level playing field fra le parti, di un contesto legale tale da favorire l’ingresso e l’operato delle imprese europee in terra cinese, difenderne un trattamento equo al riparo da politiche predatorie delle state-owned enterprises (SOEs) e dei sussidi di stato cinesi. Portarne le opportunità di sviluppo a galla con quelle garantite alle imprese cinesi operanti nel Vecchio Continente, sotto l’ombrello del diritto Europeo. Più di recente, la Cina ha invece lamentato l’incremento di barriere all’ingresso dell’Unione, come l’istituzione del meccanismo europeo per lo screening di investimenti esteri (dinamiche poi replicatesi anche a livello nazionale). Un hic sunt leones commerciale europeo rivolto verso il mondo esterno in generale, sì, ma con dito chiaramente puntato verso l’estremo oriente.
A seconda della sponda atlantica cui si porge l’orecchio, il vento soffia una diversa interpretazione dei fatti. In terra americana l’accordo è percepito come un pesante errore di valutazione da parte degli alleati europei. A una manciata di settimane dall’insediamento della nuova amministrazione Biden, prossima a riprendere le redini del multilateralismo globale dopo quattro anni di latitanza, l’UE ha ingenuamente offerto il fianco molle al “nemico comune”. Lo stesso vale per il presunto egoismo delle capitali europee, Berlino e Parigi in testa: disposte ad accettare di buon grado opache negoziazioni dietro porte chiuse con un teorico “strategic competitor”, per poi correre al riparo sotto l’ombrello americano non appena imposto dalla contingenza; a soprassedere in larga parte sulla questione dello sfruttamento del lavoro forzato da parte della Cina, messa al bando non imprescindibile per la ratifica dell’accordo a livello nazionale stando alle dichiarazioni del Ministro Francese Riester; di difettare di meccanismi capaci di far rispettare gli impegni presi dal governo ginese, sottostimandone l’attivismo statale come il National Intelligence Act del 2017 e il Company Law del 2018 ricordano. A ciò si aggiunga la generale riluttanza verso l’intraprendenza della Germania targata Merkel, potenziale sintomo di un egemone regionale che riluttante forse non si sente più. E che, agli occhi di Washington, deve tenersi a debita distanza da Pechino.
I detrattori del CAI puntano perciò il dito contro la strategia della “Wolf Warrior Diplomacy” cinese, dell’apparente incapacità di Bruxelles di vedere oltre il proprio naso e comprendere lo schema geopolitico seguito dal Regno di Mezzo. Se da una parte Volkswagen e Daimler ballano al ritmo della moneta sonante del mercato cinese, e così i loro azionisti, gli investimenti cinesi in infrastrutture e hi-tech mirano ad altro (medesimo canovaccio del Partenariato Economico Globale Regionale formalizzato a Novembre 2020).
L’altra faccia della medaglia offre invece un panorama differente, ma non per questo meno realista. Agli occhi di molti in Europa, infatti, il CAI rappresenta un importante passo in avanti per l’economia continentale. Dati Eurostat alla mano, i primi dieci mesi del 2020 hanno visto, nonostante la piaga pandemica, un incremento superiore al 2% su base annua dell’interscambio commerciale fra l’UE e la Cina, attestatosi oltre i 477 miliardi di Euro. L’accordo affronta molte delle tematiche care a Bruxelles, quali maggiore trasparenza, prevedibilità, certezza normativa e, potenzialmente, l’alleggerimento del deficit commerciale con la Cina (a quota 135,9 miliardi secondi le ultime cifre). Inoltre, segue il Bruxelles-pensiero, una più ampia convergenza con Pechino può aiutare a distendere le tensioni geopolitiche con l’Occidente.
Riguardo la presunta naïvité dei negoziatori europei, i sostenitori dell’accordo sottolineano come questo non limiti l’autorità di vigilanza attraverso lo screening degli investimenti e la protezione di infrastrutture critiche. Il fil rouge suona convincente: pensare che la Cina cambi la gestione delle proprie magagne domestiche (Hong Kong e Xinjiang in testa) per effetto di una mancata firma da parte dell’Unione è semplicemente irrealistico. Anzi, il CAI fornisce per la prima volta una minima leva in materia di tutela dei diritti dei lavoratori, dato che impegna Pechino a prodigarsi per la ratificazione di convenzioni chiave dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, fra cui quella sul lavoro forzato. Convenzione che non presenta nemmeno la firma di Washington.
Ripromettersi una rinnovata amicizia transatlantica, dunque, non deve andare a scapito di nuovi legami commerciali con il Dragone. Ci vorranno mesi prima che la nuova amministrazione americana strutturi una nuova strategia economica vis à vis con Pechino, cherry picking su cosa salvare e cosa no dell’era Trump. Perché Bruxelles dovrebbe indugiare quando Washington non si è curato di consultarsi con gli alleati occidentali prima di innescare una guerra commerciale globale o chiudere la Fase 1 del nuovo trattato commerciale sino-americano?
A Biden ora il compito di tenere a freno l’attivismo tedesco rispetto alla Cina, mercato che rimane una priorità per la grande manifattura e per il settore dell’automotive teutonico. Le tempistiche del processo europeo di ratifica di accordi internazionali, che difficilmente permetterà al CAI di tagliare il traguardo prima del 2022, danno spazio di manovra all’incombente amministrazione statunitense. La dicotomia tra legami economici e sicurezza nazionale, d’altro canto, rischia di avvelenare il dibattito europeo fra coloro che asetticamente vedono nella Cina il modo più veloce per sfuggire alla pandemia economica da Covid-19, e quelli che diffidano a priori del Partito Comunista e delle promesse fatte in sede di accordo.
Il grande sorpasso del Dragone sull’aquila a stelle e strisce pare aver guadagnato in velocità. E parte della benzina che ne alimenta il motore è a marchio europeo. Non resta che attendere che il Presidente Biden metta nero su bianco quale delle due facce della medaglia l’UE debba fissare. Adattandone il peccato originale, o il trionfo, al futuro assetto sino-americano.